- Le prese di posizione recenti del governo tedesco sulla governance europea mostrano un desiderio di tornare al mondo di prima, imperniato sulla disciplina di bilancio e sulla competizione tra paesi europei
- le élites tedesche non sembrano cogliere appieno non solo il fatto che non si può tornare ad una concezione della politica economica per cui l'unico faro è la disciplina di bilancio; ma anche il fatto che il modello di crescita tedesco sembra essere arrivato al capolinea
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Il deficit di investimenti pubblici e privati che ha ridotto la competitività dell’industria tedesca, l’aumento di disuguaglianza e precarietà, la dipendenza crescente dalla domanda estera, problematica in un contesto geopolitico sempre più incerto, hanno contribuito a rendere la Germania un gigante dai piedi d’argilla. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno semplicemente amplificato questi problemi.
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Serve che una discussione europea ambiziosa e ad ampio raggio faccia distogliere lo sguardo delle élites tedesche dal proprio ombelico per provare a ridare centralità all’Europa in un momento di grande turbolenza geopolitica, che si estenderà certamente ben oltre la guerra in Ucraina
In queste settimane in cui la campagna elettorale cattura l’attenzione della classe politica italiana, non dovremmo smettere di guardare oltre le nostre frontiere. Colpisce il disinteresse per quello che sta succedendo in Germania.
Le difficoltà in cui si dibatte la maggiore economia europea, infatti, avranno conseguenze per il nostro paese molto più rilevanti del domino delle alleanze e dei giochi di potere cui assistiamo in casa nostra. La settimana scorsa il ministero dell’Economia e della Transizione ecologica (retto dal vice cancelliere e numero due del partito dei Verdi, Robert Habeck) ha pubblicato un rapporto sulla riforma del Patto di stabilità, che, anche se qui in Italia tendiamo a dimenticarlo, sarà il tema caldo dei prossimi mesi.
La riforma che il rapporto disegna è una riproposizione della regola esistente, come se i disastri della crisi del debito sovrano e il Covid fossero una parentesi da richiudere il prima possibile tornando al vecchio mondo.
Il motore tedesco è in crisi da anni
Le classi dirigenti tedesche, con questa frenesia di tornare al passato, non sembrano cogliere appieno non solo il fatto che dopo l’esperienza degli ultimi dieci anni non si può tornare a una concezione della politica economica per cui l’unico faro è la disciplina di bilancio, trascurando l’investimento pubblico la politica industriale, la protezione sociale; ma anche, e questo è più sorprendente, il fatto che il modello di crescita tedesco sembra essere arrivato al capolinea.
Un modello di crescita trainata dalle esportazioni che, ricordiamolo, era basato da un lato sulla compressione della domanda interna (con salari che per decenni sono cresciuti molto meno della produttività); dall’altro su di un settore esportatore che in parte per ragioni fortuite si avvantaggiava sia del dualismo del mercato del lavoro, sia di catene del valore che avevano le radici nei paesi dell’ex blocco sovietico.
La Germania poteva quindi importare beni intermedi e componenti a basso costo e riesportare prodotti finiti, spesso ad alto contenuto tecnologico, sui mercati extra europei. Questo ha consentito di rimanere una potenza manifatturiera mentre la maggior parte dei paesi avanzati dovevano far fronte a deindustrializzazione e delocalizzazioni.
In molti, tra cui chi scrive, hanno negli anni criticato questo modello, che durante la crisi del debito sovrano la Germania ha cercato con successo di generalizzare al resto dell’Eurozona. Nel 2020, in conclusione di un saggio sull’Europa sottolineavo come esso fosse arrivato al capolinea. Il deficit infrastrutturale e di investimenti privati, frutto di decenni di frugalità auto imposta, ha progressivamente ridotto la competitività dell’industria tedesca. La stessa crescita dei paesi emergenti, se da un lato ha contribuito a fornire sbocchi per i beni tedeschi, dall’altro ha visto questi paesi sviluppare produzioni ad alto valore aggiunto che fanno concorrenza alle imprese tedesche.
Non solo: notavo anche che il progressivo snaturamento del modello ordoliberale, l’aumento di disuguaglianza e precarietà (che contribuisce alla stagnazione demografica e all’invecchiamento della popolazione), la dipendenza crescente dalla domanda estera, ormai problematica in un contesto geopolitico sempre più incerto, hanno contribuito a rendere la Germania un gigante dai piedi d’argilla. I colli di bottiglia apparsi durante e dopo la pandemia a causa dei lockdown e della ricomposizione di domanda e offerta globali si sono rivelati più persistenti del previsto.
L’accelerazione dell’investimento nella transizione ecologica, ovviamente benvenuta e fin troppo tardiva, crea scarsità in settori chiave per l’economia tedesca, come quello automobilistico. Infine, le tensioni geopolitiche, il rallentamento dei paesi emergenti, e ovviamente la guerra in Ucraina riducono di molto gli sbocchi per il settore esportatore tedesco e hanno messo a nudo la miopia della scelta della leadership tedesca che per anni ha puntato su petrolio e gas russi, riducendo i costi ma creando una dipendenza di cui oggi paga il prezzo.
Gli eventi degli ultimi due anni sono venuti solo ad aggiungersi a problemi strutturali di un modello di crescita e di organizzazione della produzione che iniziava a mostrare la corda fin da prima della pandemia.
Le élites tedesche ad un bivio
Nel 2020 concludevo il mio saggio affermando che la crisi del modello tedesco avrebbe potuto essere un’opportunità per l’Europa, in quanto avrebbe obbligato la Germania a concentrarsi sul cortile di casa, a preoccuparsi degli squilibri interni alla zona euro, a promuovere investimenti pubblici e privati, a ripensare la politica industriale, a sostenere la domanda interna (tedesca ed europea); non per altruismo, ma per creare un mercato stabile in un contesto internazionale divenuto strutturalmente incerto e turbolento.
Il sostegno convinto al Next Generation EU sembrava confermare la sensazione che qualcosa fosse cambiato in Germania. È per questo che bisogna guardare con attenzione al dibattito tedesco. Il documento di Habeck e le prese di posizione recenti del Ministro delle Finanze, il liberale Lindner, fanno trasparire una sorta di sindrome dello struzzo delle élites tedesche, che sembrano desiderare un ritorno al passato per non dover affrontare i problemi strutturali della Germania e della costruzione europea.
Se questa tendenza prevalesse, nei prossimi anni ne pagherebbero il prezzo non solo i cittadini tedeschi ma l’Europa intera. Occorre che sui tavoli europei i rappresentanti del governo tedesco siano chiamati a contribuire al ripensamento della politica industriale ed energetica e delle politiche di investimento pubblico, allo sviluppo di un Welfare europeo, alla definizione di regole di bilancio che consentano politiche attive e sostenibili, e al completamento dell’Unione bancaria.
Serve che una discussione europea ambiziosa e ad ampio raggio faccia distogliere lo sguardo delle élites tedesche dal proprio ombelico per provare a ridare centralità all’Europa in un momento di grande turbolenza geopolitica. Francia e Italia, per la loro dimensione e per l’influenza che hanno avuto in Europa nel passato recente, avrebbero un ruolo fondamentale nel contrastare il ritorno al passato delle élites tedesche. È per questo che l’assenza dei temi europei dal dibattito (pre-elettorale) italiano e (post-elettorale) francese non può che destare preoccupazione.
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