Circa un anno fa, parlando del velo di opacità che avvolge le politiche nazionali in tema di immigrazione, avevamo preannunciato che esso sarebbe calato pure sui centri in Albania. E così è stato. Come spiegato su queste pagine da Nello Trocchia, il direttore della struttura di Gjader ha respinto un’istanza di accesso agli atti presentata da Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, e la decisione è stata confermata in sede di riesame dal ministero della Giustizia. De Fazio aveva richiesto, in particolare, «copia del regolamento per la disciplina del sistema di videosorveglianza (…) presso la struttura penitenziaria di Gjader», la data della sua emanazione e «copia del provvedimento con cui sono stati nominati il responsabile e gli incaricati del trattamento». Nell’atto di diniego si dice che, secondo il Regolamento del ministero sui casi di esclusione del diritto di accesso, non può esservi trasparenza sui «programmi per la collaborazione internazionale in materia penitenziaria e di giustizia, quando la loro conoscenza può arrecare un pregiudizio concreto ed effettivo alla sicurezza, alla difesa nazionale e alle relazioni internazionali». È necessario chiarire, perché qualcosa non torna. Inizia il nuovo corso dei centri in Albania: sbarcati 40 migranti, tutti ammanettati Il regolamento per la videosorveglianza Il regolamento del sistema di videosorveglianza serve a stabilire le modalità e i limiti per l’uso delle relative telecamere. Esso usualmente include, tra l’altro, le finalità del sistema, le aree soggette a sorveglianza, i tempi di conservazione delle immagini, i soggetti autorizzati alla loro visione e gestione, le misure adottate per proteggere i dati raccolti, in conformità alla normativa in tema di privacy. Una disciplina specifica (d.lgs. 51/2018) è applicabile alla protezione dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali. Lo stato di detenzione non comporta, infatti, la compressione del diritto alla tutela dei dati delle persone recluse. Nel centro in Albania la penitenziaria usa le telecamere per spiare l’agente Il diniego di accesso L’accesso civico sul sistema di videosorveglianza dei centri in Albania, come detto, è stato negato con la motivazione che il relativo protocollo rientrerebbe nell’ambito dei programmi per la collaborazione internazionale in materia penitenziaria e di giustizia, riguardo ai quali via Arenula esclude la trasparenza. Innanzitutto, i programmi cui il regolamento si riferisce sono, di norma, inerenti all’esecuzione della pena, a forme di criminalità internazionale o ad altri profili che richiedono collaborazione fra stati, come si evince dalle schede di programmazione operativa annuale per il 2025 del ministero della Giustizia. Nelle schede non si fa cenno al protocollo Italia-Albania. È vero che tra i due paesi nel 2024 è stata definita un’intesa per la cooperazione, tra l’altro, in materia giudiziaria e penitenziaria, ma il protocollo non è contemplato. Il modello dei Cpr in Albania è spregiudicato e pericoloso Peraltro, il Regolamento del ministero prevede il rifiuto dell’accesso agli atti «quando la loro conoscenza può arrecare un pregiudizio concreto ed effettivo alla sicurezza, alla difesa nazionale e alle relazioni internazionali». Dunque, non c’è alcun automatismo nel diniego, ma dev’esserci un danno. E ci si chiede quale danno possa derivare dalla conoscenza pubblica, ad esempio, delle finalità della videosorveglianza, dei tempi di conservazione delle immagini o della normativa applicabile, considerato che quest’ultima è, in particolare, quella del regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR) e del codice della Privacy, oltre alla disciplina più specifica sopra menzionata. Infatti, il centro di Gjader, pur essendo in territorio albanese, è sottoposto alle leggi italiane. Precludere la conoscenza del regolamento sulla videosorveglianza significa impedire l’accertamento che esso rispetti la richiamata normativa in tema di privacy, nonché la regolamentazione giuslavoristica, riguardante anche chi è impiegato nei luoghi controllati da telecamere. In partenza, anzi no: il caos delle deportazioni dei migranti in Albania Infine, se pure il ministero della Giustizia avesse voluto mantenere il “segreto” su qualche informazione, avrebbe potuto concedere un accesso parziale, oscurando le parti da tutelare, come previsto dalla legge (d.lgs. 33/2013), anziché negare l’accesso in toto. Ora Uilpa potrebbe ricorrere al Tar per vedere riconosciuto il proprio diritto alla conoscenza. Se è vero che la normativa vigente ha sancito il principio che «la regola generale è la trasparenza mentre la riservatezza e il segreto eccezioni», in tema di immigrazione pare che valga l’opposto. E forse non è un caso.