- Non è la prima volta che il dramma della malattia viene interpretato dai media con lo scatenamento del vocabolario bellico.
- Fin da quando, nel 2019, aveva annunciato la scoperta di una grave forma di leucemia, intorno a lui si era prontamente levata, come un’assordante litania motivazionale, la retorica della lotta e del combattente.
- È, chiaramente, tutto sbagliato. La malattia non è una lotta, che se ci metti la grinta magari riesci a sfangarla.
Cito a caso: «Ciao guerriero», «Il destino è stato più forte di lui», «Il guerriero dal cuore grande», «Un combattente», «La lotta di un gigante», «Una vita da guerriero». Sono solo alcuni dei commenti dopo la prematura scomparsa di Siniša Mihajlović, ex-calciatore e allenatore di serie A.
Non è la prima volta che il dramma della malattia viene interpretato dai media con lo scatenamento del vocabolario bellico. Mihajlović ne è stato, suo malgrado – complice il carattere burbero e le caratteristiche calcistiche – un esempio lampante.
La retorica della lotta
Fin da quando, nel 2019, aveva annunciato la scoperta di una grave forma di leucemia, intorno a lui si era prontamente levata, come un’assordante litania motivazionale, la retorica della lotta e del combattente. Ora che Siniša se n’è andato, quella retorica, lungi dal riconoscere la sua inadeguatezza, continua a lanciare i suoi slogan, come a voler istericamente confermare che è questo il modo giusto di guardare il corpo di un morto.
Un noto giornalista sportivo scrive: «Coltiviamo la convinzione che nei giorni più difficili Sinisa abbia fatto quello che ha sempre fatto dentro e fuori dal campo: combattuto come una bestia ferita». Metafora, quella della belva combattente, che ritorna nel post che ha voluto dedicargli Giorgia Meloni: «Hai lottato come un leone in campo e nella vita… sei e resterai sempre un vincente».
Non è questione di atteggiamento
È, chiaramente, tutto sbagliato. La malattia non è una lotta, che se ci metti la grinta magari riesci a sfangarla. Sopravvivere alla malattia non è questione di atteggiamento, e chi muore non lotta meno di chi vive.
Il malato non combatte nessuna battaglia: subisce la contraddizione crudele del nostro essere materia. La morte non è un avversario: è il buco nero ingiusto e tremendo, il vortice dell’entropia che tutto prima o poi disgrega. C’è qualcosa di tossico, di profondamente osceno nel definire il malato “un lottatore”.
Il linguaggio non è mai un caso, e ogni retorica implica una visione del mondo: basta provare ad analizzarla più da vicino. Il paragone al leone e alla belva ferita implica un mondo simile a una giungla, dominato dalla sopraffazione: predatori e prede, esseri che sopravvivono ed esseri che soccombono.
Uno stato di natura in cui vige la divisione, tutta americana, tra winner e loser, divisione più tremenda di quella che che nella religione indù separa le caste. Un abisso tra vincenti e perdenti superabile solo con la forza di volontà.
Le virtù del secolo
Ed eccoci al punto, il vero panettone ripieno di merda della retorica capitalista: l’illusione che basti volere qualcosa, volerla intensamente, per ottenerla. Tenacia, agonismo, intraprendenza, ottimismo, spirito proattivo: le virtù del secolo applicate al letto d’ospedale e persino al feretro, dove fino all’estremo bisogna dire che il defunto ha lottato fino all’ultimo, e che nonostante tutto – persino nonostante la propria fine – resta un vincente.
Il capitalismo, nella sua cinica, oscena voracità, cerca di portare competitività e performatività persino davanti al corpo di un uomo morto.
Quest’epoca sa fare molte cose, ma di certo non sa morire. E forse la risposta più adatta, la più umana, sta proprio nelle parole che Siniša dedicò a sua moglie Arianna, descrivendo così l’esperienza dell’amore coniugale: «Come quando torni a casa e sorridi perché sai di essere al sicuro».
La dolcezza dell’abbandono, dell’amore come quel solo luogo al di fuori di ogni lotta. La consapevolezza che non il combattere ma, come scrisse Pasolini, «solo l’amare, solo il conoscere conta».
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