Fra le enormità del mondo al contrario del generale Vannacci, quella che mi mette più a disagio è la sua critica (se mi si permette l’uso di un termine forse un po’ troppo nobile) del linguaggio del politicamente corretto
Fra le enormità del mondo al contrario del generale Vannacci, quella che mi mette più a disagio è la sua critica (se mi si permette l’uso di un termine forse un po’ troppo nobile) del linguaggio del politicamente corretto. Forse è il cortocircuito con il termine usato da Adriana Cavarero nell’intervista raccolta da Paola Tavella (Il Foglio, 16 agosto), in cui si parla di “neolingua”, per riferirsi a certi eccessi come la locuzione “persone con l’utero” usata per riferirsi alle donne.
L’assimilazione fra una delle più lucide filosofe femministe e le periclitanti esplorazioni storico-concettuali di Vannacci è azzardata e probabilmente deriva dall’effetto dell’accumularsi di notizie in questa estate di micro-scandali e micro-polemiche. Eppure, non riesco a levarmela dalla testa.
Nella sua intervista, Cavarero esprime una tesi politica forte e molto convincente. Certa terminologia suppostamente inclusiva finisce per escludere le donne, per ripristinare un nuovo maschile universale. L’ansia di riconoscimento linguistico delle minoranze di genere e della loro fluidità finisce per farci arretrare rispetto alle conquiste del femminismo. Per riconoscere la differenza di chi non vuole essere né uomo né donna forse finiamo per non riconoscere (più) la differenza delle donne, così faticosamente venuta alla luce e conquistata.
L’universalismo conservatore
Ma poi le cose diventano più difficili. Perché per dire che bisogna riconoscere linguisticamente la differenza delle donne ma non quella di altri generi, Cavarero ricorre alla biologia, a studi che attesterebbero come fondamentale, diffusa, essenziale, la differenza fra maschile e femminile, e come invece residuale l’intersessualità. E a questo punto non si può non chiedersi: ma possiamo ancorare alle essenze, e alle essenze biologiche (ammesso che esistano, ammesso che la biologia non sia questione di gradi, più che di differenze), le nostre scelte su come trattare gli altri? E come possiamo bloccare chi (come fa il generale grafomane) ciancia di altre differenze morfologiche, per esempio quelle del colore della pelle?
Forse la soluzione è pensare (lo dice Andrea De Benedetti, nel suo Così non schwa, Einaudi, 2022) che in fondo ciò che conta è la sostanza, i significati, non la forma, cioè il linguaggio e i significanti. Ciò che importa è riconoscere le differenze, così da non discriminare i gay, le lesbiche e gli altri generi, non nominare (tutte) queste differenze.
D’altra parte (nota ancora De Benedetti), perché mai le identità, per essere protette e non discriminate, dovrebbero essere sempre visibili linguisticamente? Mica uno che si presenti, sul posto di lavoro, come avvocato, dice anche quali sono le sue identità sessuali ed etniche? Dirlo subito, notarlo sempre, non è forse l’anticamera della discriminazione? Non è forse questa la radice dell’ossessione di Vannacci per certi termini dispregiativi che la correttezza politica avrebbe bandito?
Ma quest’argomentazione porta dritti all’universalismo conservatore, a cristallizzare il linguaggio nella forma che la tradizione, con tutto il suo percorso di discriminazioni, razzismo, e altre ingiustizie, gli ha dato. E certo (altra argomentazione di De Benedetti) il linguaggio non si può riformare ortopedicamente, il linguaggio lo fanno i parlanti, e lo cambiano per ragioni di economia espressiva. Il che equivale a dire che il linguaggio è questione di potere, potere delle maggioranze, non di diritto, o tutela delle minoranze.
E se il potere ce l’hanno quelli come l’autore de Il mondo al contrario, il linguaggio segue, no? Mica possiamo lamentarci, no? Insomma, l’impressione è che, se vogliamo evitare le secche dell’essenzialismo biologista e quelle del fascismo più reazionario, non possiamo evitare i costi della coerenza. Lo schwa può essere irrealizzabile oralmente, "persone con l’utero” è ovviamente maschilista (dato che non si dice mica “persone con pene”). Ma la neolingua non è quella di Orwell, in questo caso. È il tentativo di segnalare con immediatezza i limiti della decenza e dell’accettabilità.
È questo, ad esempio, che si è fatto con la parola “femminicidio”, che, come ha osservato Comencini su Repubblica del 19 agosto, solo «l’ostinata volontà del movimento femminista alla fine ha imposto su ogni fronte». D’altra parte, per qualcuno i limiti del linguaggio erano i limiti del mondo. Anche del mondo etico. La sinistra non può ritrarsi dalla politica del linguaggio, non può sfuggire dalle riforme anche linguistiche: farlo significa lasciare alla destra appigli per ritornare al vecchio caro mondo di una volta, con i suoi carichi di sessismo, discriminazione e razzismo.
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