La transizione alla guida della Nato, con il passaggio dal norvegese Jens Stoltenberg all’olandese Mark Rutte, è stata accolta con favore a palazzo Chigi. Non solo perché, dopo un decennio, offre l’opportunità di rivedere i rapporti interalleati e, forse, la titolarità di alcune cariche, tra cui quella di rappresentante speciale per il vicinato meridionale, recentemente istituita su iniziativa italiana ma assegnata allo spagnolo Javier Colomina. Né per la maggiore affinità politica e personale che, rispetto al suo predecessore, Rutte potrebbe avere con l’attuale governo italiano e, soprattutto, con Giorgia Meloni.

Piuttosto, l’ex primo ministro olandese sembra aver acquisito consapevolezza dell’importanza delle minacce provenienti dal Mediterraneo allargato per la sicurezza euro-atlantica. Negli ultimi anni si era allineato su una posizione più dura contro l’immigrazione clandestina e le organizzazioni criminali, dimettendosi da premier per divergenze con alleati fautori di una linea più morbida su questo tema. Significativa anche la sua partecipazione, con Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni, al “Team Europe”, che ottenne dal presidente tunisino Kaïs Saïed la firma del Memorandum of Understanding Ue-Tunisia.

Nella conferenza stampa inaugurale Rutte ha presentato le tre priorità del suo mandato: assicurare la difesa collettiva; supportare l’Ucraina contro l’aggressione russa; affrontare efficacemente le crescenti sfide globali alla sicurezza euro-atlantica. La loro declinazione, tuttavia, è stata contraddistinta da luci e ombre dalla prospettiva di Roma.

Per quanto riguarda la prima priorità, Rutte ha parlato di burden sharing facendo riferimenti diretti alle due “C” (cash e capabilities) più spinose per l’Italia perché maggiormente legate al cost-sharing. L’enfasi posta sul 2 per cento rischia di far perdere di vista il fatto che in termini assoluti vale più l’1,49 per cento speso dall’Italia – quinta economia all’interno della Nato – che il raggiungimento (o il superamento) della soglia concordata in sede Nato speso da alleati con un Pil di gran lunga inferiore. Al contempo, il nuovo segretario generale ha mancato purtroppo di ricordare l’importanza della terza “C” (contributions), legata al risk-sharing e su cui l’Italia è particolarmente virtuosa a differenza di molti alleati.

Alleanze

Passando al sostegno all’Ucraina e al contrasto alla minaccia russa, Rutte ha correttamente ribadito la necessità di una sua conferma. Sia per la vicinanza della Nato a un paese partner come l’Ucraina che ha subito una brutale aggressione sia perché risparmiare oggi sul sostegno all’Ucraina significherà andare incontro ai costi molto maggiori generati nel medio periodo da un’eventuale vittoria di Vladimir Putin.

Un passaggio sulla necessità di contenere la minaccia russa con un approccio a 360° sarebbe stato però opportuno. Mosca, d’altronde, si è dimostrata molto abile nel definire una strategia in cui l’obiettivo finale di riportare Kiev nella sua sfera d’influenza passa anche per la catastrofe alimentare che ha contribuito a causare nei territori ricompresi tra il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa nonché per la capacità di trasformare i suoi stati-clienti nel Mediterraneo allargato in leve politiche contro l’occidente.

In tema di sfide globali emergenti, infine, sono risuonate positivamente le parole del nuovo segretario generale sull’importanza di accrescere il coinvolgimento dei partner del Medio Oriente, Nord Africa e Sahel, funzionale al ripristino della stabilità politica nel vicinato meridionale e al contrasto della minaccia terrorista. Quando poi Rutte è passato a spiegare le ragioni di un’intensificazione dei rapporti con i partner dell’Indo-Pacifico, ha correttamente ricordato come Cina, Corea del Nord e Iran sono ormai degli abilitatori della capacità russa di riscuotere successi sul fronte ucraino.

Ha tralasciato, tuttavia, di denunciare il contributo pernicioso che queste potenze stanno dando alla più generale diffusione dell’instabilità nel Mediterraneo allargato. Questa serie di input parzialmente contraddittori devono costituire per l’Italia un incentivo a cercare un chiarimento sia con Rutte che con gli alleati, anzitutto con gli Stati Uniti.

Fermo restando la necessità di un aumento degli impegni di fronte a un ambiente internazionale sempre meno sicuro, l’Italia deve maturare la direzione da imprimere alla sua politica militare nel medio-lungo periodo. Al di là delle dichiarazioni formali, un’effettiva disponibilità a considerare paritariamente fianco Est e fianco Sud potrebbe costituire un incentivo a fare quanto è nelle possibilità di Roma per far crescere il progetto del “pilastro” europeo nella Nato.

Al contrario, una sostanziale conferma dello sbilanciamento a nord-est dell’Alleanza atlantica, sulla scorta di quanto avvenuto nell’ultimo decennio anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina, potrebbe indurla a ricalibrare il suo impegno all’interno di missioni da svolgere sotto l’ombrello dell’Ue. O, persino, a ricavarsi un maggiore spazio di autonomia – al prezzo di rischi e costi crescenti – realizzando missioni bilaterali, come ha già iniziato a fare nel Mediterraneo allargato.

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