Sull’isola al centro della propaganda del governo si ricordano i morti della strage del 3 ottobre di dieci anni fa, che portò all’operazione Mare Nostrum. Finita quella hanno preso il sopravvento l’indifferenza e il cinismo della destra e dell’Europa. E le tragedie continuano a ripetersi
Dieci anni sono passati da quei «mai più» pronunciati con forza dai rappresentanti delle istituzioni italiane davanti alle decine di bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa. Trecentosessantotto morti e otto dispersi. «Mai più stragi nel Mediterraneo» fu il leitmotiv dopo che un barcone con circa cinquecento persone a bordo, quasi tutti eritrei, si era capovolto al largo di Lampedusa.
Uomini, donne e bambini già con gli occhi pieni d’Europa morti nell’ultimo miglio di un lungo viaggio. Il primo grande naufragio nel Mediterraneo dopo la tragedia di Portopalo quando, a Natale del 1996, 283 persone erano morte al largo di Siracusa.
Quel 3 ottobre pareva che l’Italia, gli italiani e anche le istituzioni, avessero intimamente deciso un cambio di passo. I migranti tornavano a essere persone in difficoltà da accogliere e non più clandestini. Il 3 ottobre è stato proclamato giornata di lutto nazionale in memoria delle vittime del naufragio.
I piazzisti della paura
Qualche giorno dopo il governo italiano aveva annunciato l’inizio dell’operazione Mare nostrum , la prima missione della marina militare italiana con mandato umanitario. Sì, perché oltre al soccorso in mare, i nostri militari avevano anche il compito della ricerca dei barconi in difficoltà affinché non si ripetessero stragi annunciate. Tra ottobre 2013 e ottobre 2014 sono state 150mila le vite salvate in mare dagli italiani. Il mondo guardava all’Italia con grande ammirazione.
Nel frattempo Roma chiedeva a Bruxelles di farsi carico, come comunità europea, di questa umanità in fuga da guerre e carestie. L’Europa accettava di raccogliere il testimone e lanciava l’operazione Eunavfor Med. Ma nessuna nave arriva a vegliare su quel tratto di mare in cui carrette sempre più precarie, stracariche di persone in fuga, tentano la sorte. Il centro di coordinamento per il soccorso marittimo di Roma si ritrova a cooptare mercantili commerciali che non sono attrezzati per il soccorso.
Il 18 aprile 2015, un barcone di oltre ventitré metri, con a bordo circa mille persone, naviga in condizioni precarie nel Canale di Sicilia. Nel suo tragitto di sessanta miglia nautiche, quel cumulo di assi di legno non incrocia nessuna nave di Eunavfor Med fino a quando la capitaneria di porto italiana richiede l’intervento di un mercantile portoghese già nei paraggi. Ma nelle manovre di avvicinamento il barcone si capovolge. Tra morti e dispersi le vittime dichiarate sono circa settecento. Un altro 3 ottobre, ancora più drammatico.
Stavolta, però, la discussione in Europa non è su chi ha la responsabilità di quei morti. I politici, come piazzisti al mercato, urlano i loro slogan sulla sicurezza dei confini europei. L’Europa firma un accordo con la Turchia per la deportazione dei siriani dal territorio Schengen svendendo a buon prezzo i diritti umani universali, o forse più banalmente la propria dignità. L’Italia firma il memorandum con la Libia per finanziare pezzi di milizie di uno stato fallito in piena guerra civile, criminalizza i migranti ma, soprattutto, le organizzazioni non governative che li salvano. Un mondo al contrario in cui i diritti umani e la loro tutela diventano un fardello di cui sbarazzarsi in una continua ed estenuante campagna elettorale.
«Non è cambiato nulla da quel 3 ottobre del 2013», dice con rabbia Vincenzo Luciano, il pescatore di Cutro a cui è capitato in sorte di assistere all’ultima grande strage del Mediterraneo in cui, il 26 febbraio, novantaquattro persone hanno perso la vita. «Come a Lampedusa hanno raccolto i morti dieci anni fa, anche io a Cutro ho raccolto corpi dal mare pochi mesi fa» continua Vincenzo che, su invito del sindaco di Lampedusa, è arrivato sull’isola per partecipare alla commemorazione del decimo anniversario della strage. «Se solo fossi riuscito a salvarne uno di quei bimbi. Nessuno. Tutti morti li ho raccolti. Oggi mi chiamano il pescatore dei morti» racconta mentre la voce gli trema.
Senza giustizia
Ma per Roma e Bruxelles non c’è spazio per le emozioni né per il rispetto del diritto internazionale. Se prima toccava pagare le milizie libiche oggi l’Italia e l’Europa si accordano con il nuovo dittatore tunisino Kaïs Saïed. Soldi in cambio di controllo delle nostre frontiere a sud. Uno schema che però fino a ora ha solo alimentato il business dei trafficanti, producendo più criminalità, abusi e morte. Di certo non ha fermato il desiderio delle persone in cerca di un futuro dignitoso. E a nessuno pare importare che noi, vecchia Europa, abbiamo bisogno di queste persone. Vive, non certo morte.
D’altronde già dieci anni fa, mentre i rappresentanti delle nostre istituzioni pronunciavano i loro famosi «mai più» a Lampedusa, da Roma partiva l’ordine alla nave della marina Libra di tenersi a debita distanza da un barcone in difficoltà. Toccava ai maltesi intervenire, dicevano. Per oltre cinque ore i maltesi e gli italiani si erano rimpallati la competenza del soccorso.
Finché il barcone, nel pomeriggio dell’11 ottobre, si era rovesciato ed era affondato. Alla fine delle operazioni di soccorso i sopravvissuti erano solo 212. Delle 268 vittime sessanta erano bambini. Quasi dieci anni dopo, nel dicembre del 2022, il tribunale di Roma aveva dichiarato responsabili le autorità competenti per omissione di soccorso e, quindi, omicidio colposo. I reati contestati, finiscono in prescrizione per una giustizia tanto lenta da perdere memoria di sé stessa.
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