- L’Italia è chiusa in troppi equilibri deteriori, che spingono cittadini, imprese e politici ad agire contro il bene comune. È soprattutto per questo che non cresce.
- Tutti sanno che il clientelismo li danneggia, per esempio, ma dove esso prevale rifiutarlo può significare non trovare lavoro. È un problema di azione collettiva, che si supera muovendosi assieme: nell’interesse proprio e comune.
- Affinché i cittadini agiscano assieme la politica deve dare loro un segnale credibile. Lo attendono da almeno tre decenni, e se non lo riceveranno il declino dell’Italia verosimilmente proseguirà.
Il discorso programmatico di Mario Draghi ha raccolto consensi anche più larghi della maggioranza che l’ha votato. Non voglio rovinare la festa, avendone beneficiato. Ma in quelle parole c’era un’omissione, tanto grave quanto inevitabile: l’azione collettiva.
Per spiegarla devo partire da lontano. Sappiamo che in Italia le regole sono meno rispettate che nelle altre grandi democrazie europee: evasione fiscale, abusivismo edilizio, corruzione, mafie, clientelismo sono più diffusi, e anche i bilanci delle imprese sono meno credibili. Sappiamo che il reddito medio è sul livello della metà degli anni Novanta, mentre in Francia, Germania e Spagna è grosso modo di un quarto superiore rispetto ad allora. Le due cose sono legate, a mio parere: cresciamo di meno soprattutto perché la supremazia della legge è relativamente debole.
Perché quei fenomeni persistono, nonostante ogni governo prometta di contrastarli? In parte, la ragione è che taluni non li volevano contrastare: la Lega, per esempio, preferiva i condoni. Ma come è possibile che alcuni partiti operino, anche apertamente, in difesa di fenomeni che manifestamente danneggiano il Paese?
Clientelismo e bilanci truccati
Una parte della risposta, che non toccherò, è che la responsabilità politica è anch’essa debole: quei partiti hanno relativamente poco da temere dalla critica pubblica. Un’altra parte parte della risposta è che troppi cittadini accettano quei fenomeni.
Dietro ciascuno di essi, infatti, esistono equilibri deteriori ai quali può essere individualmente razionale piegarsi. Prendo due esempi, che sono tipici, rispettivamente, delle aree più depresse della penisola e di quelle più sviluppate: il clientelismo e la manipolazione dei bilanci delle imprese.
Spesso, dove prevale il clientelismo per avere lavoro bisogna legarsi a un politico (che raramente sarà un buon amministratore, perché il suo successo dipende più dal voto clientelare che dalla bontà dei programmi).
Tutti sanno, o possono facilmente capire, che quel sistema li danneggia: ma rifiutarlo può significare non trovare lavoro. Per cambiare le cose bisogna che tutti – o almeno molti – lo rifiutino, smettendo di votare per i politici clientelari.
Il caso dei bilanci è identico. Ritoccarli può essere vantaggioso, per pagare meno tasse o dare ai potenziali investitori l’impressione che l’impresa sia più solida o efficiente di quanto è. Ma dove i bilanci sono poco credibili gli investitori saranno più restii a dare capitali alle imprese.
Nella media, infatti, le imprese italiane hanno relativamente poco capitale proprio; e come dice il rapporto Colao, questo è «uno dei principali fattori della loro vulnerabilità». Ma la singola impresa che rediga conti impeccabili, rinunciando ai (piccoli) vantaggi della loro manipolazione, sarà comunque danneggiata dalla generale ridotta credibilità dei bilanci: non tutte lo faranno. Per cambiare le cose le imprese devono muoversi assieme, come le vittime del clientelismo.
Questione di segnali
Se dentro simili equilibri è spesso razionale piegarvisi, tuttavia, come se ne esce? Occorre prima capirne la logica, per rivedere i propri interessi, e poi tutti devono ricevere segnali credibili che li spingano a muoversi assieme, nell’interesse comune e individuale.
Certo, chi pratica la grande corruzione e la grande evasione fiscale non seguirà quei segnali: ma essi sono pochi, e se gli altri si muoveranno le cose cambieranno lo stesso.
Il compito della politica, nell’Italia di questo decennio, è soprattutto questo: spiegare ai cittadini le cause profonde dei loro problemi maggiori, e offrire loro una visione sufficientemente credibile e attraente da spingerli a muoversi collettivamente contro fenomeni che li danneggiano tutti.
È questo che mancava nel discorso di Draghi. Ed è un difetto grave, perché senza risolvere il problema dell’azione collettiva non si ristabiliranno quelle condizioni – legalità e sicurezza (e responsabilità politica, direi) – senza le quali, secondo le sue stesse parole, «non ci può essere crescita».
Mancava perché offrire una simile visione è l’atto politico per eccellenza, che non poteva venire da un governo e una maggioranza come questi.
È in questo senso che la politica ha fatto un passo indietro, l’ennesimo: c’è un governo, manca la visione. Ma c’è il tempo, l’urgenza, e l’opportunità del Recovery Fund per formularne alcune da presentare ai cittadini, in concorrenza tra loro, affinché ne emergano programmi e segnali credibili.
© Riproduzione riservata