“Putin ha distrutto il sogno europeo” riaprendo un vaso di pandora fatto di crimini e violenze che pensavamo consegnate a un oscuro passato. Da due anni e mezzo siamo di fatto immersi in un “ritorno della Storia”, che ha definitivamente rotto con l’illusione di un’Europa pacificata e libera dai conflitti armati. E forse qualcuno ricorda ancora quei giovani soldati infreddoliti e stanchi, in mezzo alla pianura tra Kiev e la frontiera russa, immortalati sulla copertina del Time.

Quei volti sono diventati le icone di un’aggressione militare che ha segnato l’inizio di una lunga campagna di logoramento, fatta di trincee, carri da battaglia, artiglieria pesante e, naturalmente, decine di migliaia di morti. Ma sono anche un simbolo potente. Perché a finire è l’idea stessa di «patria comune europea», come l’aveva definita il presidente Ciampi, inaugurando il monumento ai caduti di Cefalonia, nel 2001.

O per meglio dire l’idea nobile di «una terra senza frontiere, di disarmo e libertà» per usare le parole di Michail Gorbačëv che nel 1989 festeggiava una nuova Europa nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale, sopravvissuta alle ombre dell’olocausto nucleare, nutrita dall’euforia degli anni Novanta per la caduta della cortina di ferro e la disgregazione dell’Unione Sovietica.

L’anti-sacrario

Celebrata attraverso miti e spazi simbolico-rituali per commemorare le vittime, la pace non ha retto all’urto di un mondo senza vincitori né vinti e senza odio. E chissà se Viktor Orbán, così disinvolto nel dialogare con Cina e Russia e così capace di riaccendere i riflettori sul vecchio mito delle politiche di potenza nazionali (oggi diremmo sovraniste) al motto di «rendiamo di nuovo grande l’Europa», ha mai visitato l’Ara pacis mundi.

L’altare della pace del mondo, inaugurato a Medea negli anni Cinquanta, a pochi passi da Gorizia e dalle terre di confine con l’est. L’anti-sacrario dei tempi moderni, che oggi davvero in pochi conoscono, voluto per ricordare le povere vite distrutte in un conflitto senza senso. Combattere (ancora) in armi per riavere indietro la pace e stabilire il diritto di un popolo a non farsi annientare.

Proteggere la democrazia dagli urti della tirannia che tutt’introno minaccia gli equilibri internazionali costruendo una politica di difesa comune; garantire stabilità e prosperità per evitare che la disaffezione dei cittadini cresca, demolendo la roccaforte della sovranità popolare.

Battersi a difesa di quella organizzazione sovranazionale voluta e immaginata il 9 maggio 1950 con la dichiarazione del ministro degli esteri francese Robert Schuman, come primo passo per frenare i nazionalismi, vero veleno dell’Europa.

Politiche controverse

Tutto giusto, certamente. Se non fosse che a rappresentare il “nemico interno”, sostenitore di forze antisistema, sia proprio Orbán, seguito dal coro dei nazionalisti di varia natura. E che per difendere il sogno dell’Europa libera e unita non bastino le armi, ma sia necessario costruire un’identità, la consapevolezza di essere o di sentirsi europei, a partire dalle date del calendario civile (ovvero ciò che dal passato una comunità sceglie di ricordare e cosa no).

Peccato che in Europa sia ancora in atto una “guerra della memoria” e che le politiche del ricordo siano nel vecchio continente ancora molto in conflitto fra di loro (nemmeno si fosse all’epoca degli stati-nazione).

Non a caso nel 2019, una risoluzione del parlamento europeo (accogliendo la richiesta di paesi come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) ha imposto l’antitotalitarismo, per celebrare ogni 23 agosto (la data del patto Ribbentrop-Molotov siglato nel 1939, origine della seconda guerra mondiale) una “Giornata di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari”.

Una “memoria europea pacificata”, come richiesto a gran voce dalle istituzioni dell’Unione, fondata su una distorta equiparazione (dalla chiara ottica compensativa, proveniente dai paesi dell’est) tra i crimini commessi dalla dittatura comunista e quelli del nazionalsocialismo tedesco, molto abile nel togliere dalle spalle il peso delle colpe e delle responsabilità per ciò che accadde nel Novecento. Una rilettura di comodo che non poteva non essere accolta anche in Italia, paese da sempre lacerato sul terreno della memoria.

“Pacificazione” e “riconciliazione” tra fascisti e antifascisti in nome di una memoria condivisa (quando le memorie sono di per sé divise, ed è giusto che sia così) basata sull’uguale rispetto e pietà che si deve alla memoria dei morti, senza considerare le loro azioni da vivi.

Un vecchio tema caro alla destra (per cui “Mussolini è ancora il più grande statista del secolo”) che se volesse davvero fare la differenza dovrebbe unirsi attorno a una memoria collettiva del 25 aprile, data di resurrezione della patria attorno ai valori di libertà. Semplicemente perché così sono andati i fatti.

Allora forse vale la pena prendere il traghetto (ora che siamo in tempo di vacanze) e andare a leggere ciò che Altiero Spinelli scrisse nel 1943, tornato da anni di sofferenze da sorvegliato speciale. Quando guardando il mare di Ventotene e quando tutto sembrava perduto, aveva sentito il «fremito dell’apparire delle cose impossibili».

© Riproduzione riservata