«La barbarie della guerra non ha abbandonato il nostro mondo, come speravamo da tanto tempo ormai». È trascorso meno di un mese dall’attacco terroristico di Hamas nei territori che separano la striscia di Gaza da Israele, e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella risveglia gli italiani da un sonno durato oltre mezzo secolo. Non che ci fosse molto da illudersi dopo il 24 febbraio 2022 con l’aggressione dell’autocrate russo Putin alla sovrana e indipendente Ucraina (a dispetto dell’ottimismo di qualche commentatore da talk show, forse un po’ distratto).

Ma dalla caduta del muro di Berlino, con la fine della guerra fredda, il cuore degli europei si era acceso di entusiasmi fin troppo facili, nell’idea che la democrazia trionfasse vittoriosa in un mondo pacificato dal rispetto delle libertà, dei diritti umani o dall’opulenza.

Il sogno della pace internazionale si era già schiantato sotto le mura dell’assedio di Sarajevo o con i cieli di Baghdad illuminati a giorno nella prima guerra del Golfo (in una sacra crociata dell’occidente a difesa della liberaldemocrazia contro un dittatore sanguinario). E nei primi anni Novanta fin troppo breve era stato lo scossone di fronte alle notizie degli stupri di massa perpetrati dalle truppe serbe contro donne bosniache di religione musulmana (oltre 25mila vittime), nel corso di un conflitto civile interetnico scoppiato nei Balcani. Donne assassinate, costrette alla schiavitù sessuale o a gravidanze forzate secondo una cultura di guerra che per secoli le aveva condannate ad essere preda o bottino degli eserciti.

È al vecchio mondo militarizzato pronto a pagare l’imposta del sangue per difendere la comunità nazionale, al trauma della guerra (mai elaborato) e al rapporto che gli italiani hanno costruito col senso del sacrificio e del morire in battaglia in duecento anni di storia, che Marco Mondini dedica il suo ultimo (potente e documentatissimo) saggio sul Ritorno della guerra.

Il culto del nobile sacrificio 

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Scritto con raro talento letterario, quasi fosse un romanzo di formazione del carattere e dell’immaginario degli italiani, l’autore scava in una mole sterminata di fonti (anche molto divertenti, come i rotocalchi, il cinema popolare, le canzoni, persino le vignette satiriche) fino a entrare nella mente di quei coscritti che fosse sacro dovere del cittadino rispondere alla chiamata alle armi del proprio paese. «Anche quando era chiaro che partire per il fronte equivaleva a una condanna a morte».

Un nobile sacrificio per la patria, celebrato nei monumenti in ricordo dei caduti, omaggiato dal corpo senza vita di un soldato ignoto, scelto tra milioni di giovani fratelli d’Italia martoriati, per rappresentare il sangue di una generazione andata all’assalto col nobile compito di liberare la patria dallo straniero. Al culto della morte in guerra e alla bellezza del morire sui campi di battaglia da eroi, gli italiani vengono educati per generazioni (a partire dal libro Cuore, manifesto pedagogico della comunità nazionale).

E a morire in guerra non si va solo perché terrorizzati dalla galera o dal plotone di esecuzione. Perlomeno ciò non vale per i soldati sbandati, che dopo il disastro di Caporetto nel 1917 si tengono addosso l’uniforme, tornano in prima linea e restano «inchiodati alla propria postazione e al proprio dovere», nonostante il cinismo e l’inettitudine dello Stato maggiore.

Vertici «pressapochisti e servili» 

Dalle guerre Risorgimentali alla vergogna della tragedia di Adua e delle imprese coloniali e ancora con la carneficina nelle trincee della Grande guerra, fino al disastro del secondo conflitto mondiale, è ai tanti comandanti, generali e alti ufficiali che l’autore dedica le pagine più aspre.

Perché al netto della retorica che dovrebbe infiammare i cuori sulla bellezza della morte per la rigenerazione del sacro suolo patrio, l’Italia le guerre le perde tutte (tranne l’intermezzo del 1915-18). Per far tonare «l’Impero sui colli fatali di Roma», le truppe del Duce devono ricorrere all’uso criminale di gas all’iprite contro la resistenza etiope.

E gli italiani vengono sbeffeggiati persino nella guerra di Spagna (poi rovinosamente persa dalle brigate internazionali): «Guadalajara no es Abisinia…Italianos, menos camiones y mas cojones».

Inettitudine al comando, impreparazione, vigliaccheria di capi «pressapochisti e servili»: è questa la peggiore condanna per milioni di italiani, obbligati a morire per niente, in un macabro impasto di «sangue e umiliazione». Nemmeno la pretesa del fascismo di plasmare una razza guerriera, stirpe di “virgulti superbi”, riuscirà ad avere la meglio dinanzi all’inutile presunzione di quei generali («schernitori di noi carne umana», come recita una canzone sulla maledetta Gorizia) pronti a trasformare gli italiani in un «popolo di morti».

È un ritratto tagliente, a tratti persino sarcastico (quasi sempre impietoso) quello che l’autore fa dei nostri comandi militari, cinici e gretti, animati da gelosie personali, completamente disorganizzati e incapaci di fronteggiare qualsiasi rischio, che immolano i figli d’Italia «sull’altare del prestigio e della vanagloria per poi disinteressarsi della loro sorte».

«Condottieri mediocri» come Rodolfo Graziani, che all’inizio del 1941 riesce a mandare allo sbaraglio 130 mila connazionali in Libia per il quale fare la guerra significa «morire, non vincere il nemico».

Esercito di fuorilegge 

Non è un caso che i reduci della disfatta, dalle steppe gelate della Russia alle buche del deserto di El Alamein matureranno un profondo odio per quel regime che li aveva costretti alla guerra e poi abbandonati, con i gerarchi che se ne stavano comodamente a Roma, mentre i figli di nessuno diventavano carne da macello.

Rabbia e rancore mai sopiti per chi la patria l’aveva gettata nella rovina senza uno straccio di senso del dovere. Come accade dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 quando a resistere di fronte allo sfascio dello Stato, restano gli ultimi rimasugli di un esercito sconfitto, lasciato senza ordini.

«Con poche munizioni e privi di mezzi» sono gli ufficiali e i soldati sbandati, che si danno alla macchia, a combattere sotto le mura di Porta San Paolo, dopo la fuga vergognosa del re e degli alti comandi delle forze armate. A resistere insieme a tanti studenti, operai, antifascisti sopravvissuti a vent’anni di dittatura, sorvegliati speciali, che hanno patito il carcere e il confino.

Una «variopinta gazzarra patriottica» animata da un «tumulto di passioni illusioni e speranze», improvvisamente risvegliatasi in un paese costretto ad affogare «nel disonore per colpa della vigliaccheria dei capi».

Combattenti volontari e irregolari di una guerriglia partigiana (l’unica guerra giusta) in cui anche le donne diventano banditi. Ragazze come Carla Capponi o Maria Teresa Regard che scappano di casa per aggregarsi a quel “popolo vinto” ma non ancora sconfitto, «ansioso di riprendere il proprio destino in mano, sacrificandosi sulle strade e sulle barricate se necessario».

Un esercito di fuorilegge e disobbedienti, che non si nasconde dietro al dito degli ordini ricevuti (come faranno i nazisti a Norimberga), disorganizzato e orgoglioso, in cui le partigiane rovesciano tutte le gerarchie e spengono per sempre il focolare della “moglie e madre esemplare” per andare incontro alla loro libertà.

Sono i ribelli nati e cresciuti nell’Italia del littorio che riscattano la patria col loro sigillo di sangue. È la loro Resistenza che restituisce dignità a un paese gettato nel fango dalle guerre fasciste, mentre il Duce «scappa travestito da tedesco», in una grottesca figura da «spaventoso coglione», come scrive Giovanni Ansaldo, ex giornalista di punta del regime.

Nata dalle macerie 

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Dopo 60 milioni di morti, con le città rase al suolo dai bombardamenti e interi villaggi dati alle fiamme, dopo lo scempio dei corpi massacrati nelle stragi, torturati o impiccati nelle piazze, l’Europa «emersa dalle macerie e devastata dal dolore» avrebbe seppellito per sempre il culto della guerra e l’onore delle armi.

«Che deve fare uno se vuole rinunciare al rinvio e partire subito militare?» chiede nell’estate del 1966 un giovane studente di lettere, nel film di Marco Tullio Giordana. «Se deve fa’ vedè urgentemente al manicomio», gli risponde il fante di sentinella, suo coetaneo. La meglio gioventù rimanderà al mittente l’idea che il solo modo per servire la patria (o amarla) sia nella coscrizione militare e nell’uso delle armi.

E in una Firenze alluvionata, i figli del boom e della beat generation (molto più attratti dal benessere che dal rumore dei cannoni) si ritroveranno tutti angeli del fango (con o senza divisa), per salvare da volontari opere d'arte, codici miniati e libri sommersi dall’acqua, unici capolavori da proteggere e celebrare.


Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023 (Il Mulino 2024, pp. 408, euro 25) è un libro di Marco Mondini

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