Volendo tentare una lettura delle recenti ringhiose recriminazioni governative nei confronti di alcuni provvedimenti della magistratura, bisogna evitare due errori di segno opposto: pensare che si tratti di un inedito, riprovevole scadimento istituzionale oppure, all’opposto, che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole italico.

Per carità di patria tralasciamo i tentativi del passato e del presente di giustificare questa intolleranza alle iniziative giudiziarie con il fatto che i rappresentanti politici sono stati democraticamente votati dal popolo, e quindi loro e la loro azione sono al di sopra del giudizio di un magistrato non votato, che non può andare contro la volontà del popolo. Anche Hitler è stato democraticamente eletto eppure nessuno di coloro che hanno addotto il summenzionato argomento si sognerebbe di sostenere che il criminale tedesco dovesse considerarsi legibus solutus per essere stato eletto dal popolo.

A parte questa blasfemia costituzionale del “sono eletto, quindi non sono giudicabile”, quando si è a corto di argomenti giuridici rispetto a provvedimenti giudiziari non graditi si fa ricorso alla radiografia della vita personale, familiare e professionale del suo autore o autrice, rovistando nella pattumiera di emeroteche o di oscure videoteche alla ricerca di elementi di biasimo o, almeno, di sospetto. È una vecchia tecnica questa dell’aggressione polemica nei confronti dell’interlocutore (argumentum ad personam) cui si ricorre quando non si è in grado di confutarne le asserzioni (argumentum ad rem); una tecnica che rimanda a periodi non esaltanti della nostra storia e che rischia imbarazzanti sconfessioni (si pensi al caso Apostolico: una giudice messa al centro di video, di gossip sui propri familiari, di sollecitazioni ispettive per un provvedimento asseritamente illegittimo pronunciato in odio al governo; governo che poi ha rinunciato al ricorso in Cassazione che aveva promosso, provvedendo a rimodulare la normativa).

Sin qui, a parte la noia per questo refrain stucchevole e patetico, nihil novi: «Sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto -spiegava Calamandrei- vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria».

L’imparzialità secondo certa politica è dunque quella dote che il magistrato perde quando procede contro un politico della maggioranza o contro il governo da questa espresso, ponendo in essere una giustizia a orologeria, secondo una locuzione coniata da Craxi trent’anni fa, e poi praticata da Berlusconi, Bossi e giù per li rami sino ad oggi.

Nulla di originale, dunque. E forse la situazione attuale non meriterebbe neppure uno sbadigliante commento, se non fosse che di recente non ci si limita più a puntare l’indice politico contro il patologico uso del potere giudiziario, ma se ne indica insistentemente il rimedio: è la prova che c’è bisogno della riforma della giustizia. Ma perché una riforma della giustizia dovrebbe assicurare che pm e giudici faziosi cambino idea? Se si allude soprattutto alla separazione delle carriere, non si comprende come questa possa incidere sul loro settario modus procedendi, tanto più che si è sempre assicurato, ancora di recente l’ha ribadito il ministro Nordio, che con la separazione delle carriere non si punta alla dipendenza politica della magistratura requirente.

A prima vista sembra proprio una giacca abbottonata non in corrispondenza delle asole. Ma il riferimento alla terapia è talmente insistito e da parte di esponenti così autorevoli del governo, personaggi politicamente navigati i quali hanno ben chiari obbiettivi e mezzi, che qualche dubbio sorge. Che per riforma della giustizia intendano una penetrante normalizzazione della magistratura sotto il controllo della politica?

Prospettiva inquietante. E certo non tranquillizza il commento con cui la premier ha stigmatizzato la magistratura i cui provvedimenti sui migranti non avrebbero aiutato il governo che starebbe aiutando il Paese.

Siamo in presenza di una stecca rispetto al pentagramma costituzionale: la magistratura non deve e non può né cercare di aiutare, né cercare di ostacolare l’azione governativa. Pensavamo che fosse ormai acquisita in una democrazia costituzionale come la nostra la differenza di statuti operativi -scolpita da Luhmann- tra l’azione politica che obbedisce ad un programma di scopo, scelta dei mezzi per conseguire un obbiettivo, e l’azione giudiziaria, che deve obbedire ad un programma condizionale: “Se si è verificato x, deve seguire l’ effetto y”, irrilevanti restando le conseguenze politiche, economiche o d’altro genere: si vorrebbe, invece, che perseguisse gli stessi obbiettivi governativi?

Riusciremo mai ad affrancarci da questa cronica, grave fibrillazione istituzionale? Solo quando una collettività matura inizierà a non credere al vittimismo di chi è al potere, a cui un nemico (giornalismo, magistratura, Banca d’Italia, Europa, ecc.) impedisce sempre di ben governare. Non sono molto ottimista: già Gerard nell’Andrea Chenier cantava «Nemico della Patria? È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo». E di sicuro oggi così canterebbe ancora.

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