Come si fa a credere a Benjamin Netanyahu che, mentre i mediatori sono al lavoro, autorizza la costruzione di una nuova colonia oltretutto su un sito patrimonio dell'Unesco? E che non ha ritenuto opportuno condannare l'ennesimo assalto dei coloni a un villaggio palestinese in Cisgiordania con un ragazzo di vent'anni ucciso e un altro ferito? E che ha ordinato l'ennesimo sgombro di alcune zone designate come “safe” al centro della Striscia di Gaza per ragioni umanitarie perché da lì partirebbero razzi e colpi di mortaio verso Israele, perpetuando l'errare peripatetico di centinaia di migliaia di civili? Come si deve valutare la notizia arrivata da Washington per cui gli Usa venderanno allo Stato ebraico armi per venti miliardi di dollari proprio mentre “condannano”, come ha del resto fatto più volte l'amministrazione di Joe Biden, l'ok per nuovi insediamenti nei Territori occupati?

La pace in Medioriente sembra sempre di più a una tela di Penelope, ogni volta disfatta dalla reale volontà di cancellare sul campo quanto la diplomazia cerca di tessere con una fatica infruttuosa e lunga ormai dieci mesi. Le speranze sono sempre naufragate e anche l'ultimo round tra ieri e Ferragosto non è risultato decisivo, appuntamento al Cairo settimana prossima.

Il problema è che Netanyahu è a sua volta ostaggio delle parole a cui si è impiccato oltre che di una situazione contingente che lo obbliga a inseguire, invece del buonsenso, lo slogan funesto “finché c'è guerra c'è speranza”.

Intanto le parole. Ha promesso la «distruzione totale» di Hamas, obiettivo pressoché impossibile nonostante il suo Stato maggiore abbia aggiornato l'altro ieri a 17 mila il numero dei terroristi uccisi. Sarebbero molti meno secondo altre contabilità. Stando a uno studio americano, come ha scritto Guido Rampoldi su questo giornale, dei 24 battaglioni di Hamas, otto sono ancora in grado di attaccare le truppe di Israele, 13 sono parzialmente operativi e solo 3 sono stati sgominati. Anche tenendo per buone le cifre di Gerusalemme, una pace segnerebbe il fallimento del proposito del premier a cui tra l'altro una grande fetta dell'opinione pubblica interna imputa di non aver fatto abbastanza per liberare gli ostaggi del 7 ottobre ancora in vita. E senza che la sua intransigenza sia servita a debellare la minaccia alle porte.

Bibi sa benissimo che, tornasse la calma, gli sarebbe presentato un conto salato. Intanto perché potrebbero riprendere con celerità i tre processi per corruzione a causa dei quali aveva cercato di varare una legge per mettere il sistema giudiziario sotto il controllo del potere politico. E poi perché sarebbe costretto a convocare elezioni dalle quali, stando ai sondaggi, uscirebbe inesorabilmente sconfitto. Da qui la necessità di tenere in vita a qualunque costo il suo esecutivo attuale. Il che significa dover assecondare tutti i capricci (eufemismo) del suo ministro più razzista. Quel Bezalel Smotrich, titolare del dicastero delle Finanze, leader del partito sionista religioso, una formazione che trae il suo consenso dai coloni, ha solo sette deputati ma è decisiva per la tenuta della maggioranza. Non passa giorno senza una sua provocazione o una sua dichiarazione reboante, capace di minare fin dalle fondamenta qualunque tentativo di soluzione del conflitto.

Dopo il 7 ottobre e la carneficina di Hamas, è risorta l'idea, sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti, che per garantire la sicurezza di Israele è necessario tornare alla formula “due popoli per due Stati”, da anni abbandonata in nome di uno status quo che prevede l'occupazione perenne della Cisgiordania se non addirittura la sua annessione.

Per commentare il via libera all'istituzione della nuova colonia su un patrimonio dell'Unesco, Smotrich ha usato parole battagliere: «Continueremo a combattere l'idea pericolosa di uno Stato palestinese e a creare fatti sul terreno». Negli ultimi 18 mesi il governo Netanyahu ha approvato la costruzione di dodici mila nuove case per i coloni, che hanno già varcato il ragguardevole numero di 800 mila.

Eccoli i “fatti sul terreno” che depotenziano qualunque buona intenzione. Con i coloni che, coperti dalle protezioni governative, dal 7 ottobre in poi si sono resi responsabili di diversi pogrom contribuendo in maniera decisiva a far salire fino a seicento le vittime palestinesi in Cisgiordania.

Non bastasse Smotrich, l'altro elemento ingestibile del governo, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale e capo di un altro partito che fa capo ai coloni, ha pensato bene due giorni fa di escogitare la provocazione massima per i musulmani, la passeggiata sulla Spianata delle Moschee, analoga a quella che fece Ariel Sharon nel 2000 e che portò all'inizio della Seconda Intifada o Intifada dei kamikaze. Con questi compagni di viaggio si accompagna Natanyahu in quello che sarà, comunque, il crepuscolo della sua avventura politica.

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