In una guerra fatta anche di simboli, è evidente che l’uccisione di Yahya Sinwar rappresenta un punto di svolta, in quale direzione lo vedremo a stretto giro.

L’architetto del 7 ottobre era uno degli obiettivi fissati da Benjamin Netanyahu per poter dire di avere vinto. Con lui è stata definitivamente decapitata l’intera leadership di Hamas nella Striscia, e benché non manchino colonnelli pronti a prenderne l’eredità nessuno oggi è in grado di dire se saranno in grado di sostenere il peso del conflitto e di avere il carisma per guidare quel che resta dell’esercito dei miliziani.

Con la fine di Sinwar comunque Netanyahu vedrà aumentare ancora i consensi, già in forte ripresa dopo i colpi inferti a Hezbollah sul fronte libanese. Se saranno effimeri o duraturi dipenderà essenzialmente da due fattori.

Il primo riguarda l’ormai annoso problema degli ostaggi, una spina nel fianco che produce giornaliere manifestazioni di piazza contro di lui e una solidarietà ai parenti in continua apprensione. Il premier ha subordinato il destino dei prigionieri alla distruzione di Hamas, anche violando un tabù non scritto per il quale la vita di un cittadino d’Israele deve avere la priorità assoluta.

È evidente che il disorientamento nelle file del nemico susseguente alla morte del capo potrebbe essere l’occasione per stringere una trattativa sempre abortita per la mancata volontà di concluderla. Riuscisse a riportare a casa gli ostaggi, sarebbe praticamente certa o quasi la sua rielezione nelle elezioni che si terranno prevedibilmente a ostilità finite.

Il secondo riguarda la strategia per Gaza, sinora alquanto fumosa. Finalmente, dopo oltre un anno, tocca al premier definire quali sono le sue intenzioni sul futuro della Striscia. Per un anno si è concentrato sulla caccia agli ideatori della carneficina nei kibbutz a qualunque costo. E per raggiungere lo scopo non ha avuto remore a bombardare indiscriminatamente la popolazione civile con la scusante che qualche terrorista si nascondeva in mezzo a donne, vecchi e bambini. Ha ridotto alla fame centinaia di migliaia di persone con sprezzo assoluto di qualunque diritto umanitario.

È chiaro che ora c’è bisogno di una strategia per il dopo che non sia massacriamo e poi si vedrà. Non conviene a Israele occupare una Striscia ridotta in macerie e di cui avrebbe la responsabilità della ricostruzione e di accudire pressoché l’intera popolazione rimasta senza alloggi e i servizi necessari. E tuttavia Netanyahu vorrà mantenere qualche forma di controllo per impedire che Gaza torni di nuovo a essere una minaccia per il sud di Israele. Lo deve ai suoi cittadini dopo lo shock subito il 7 ottobre, il crollo della speranza coltivata nell’ultimo quindicennio per cui Israele sembrava essere diventato un Paese normale e con il tema della sicurezza ormai svolto.

Potrebbero entrare in gioco i Paesi sunniti, ad esempio l’Arabia Saudita che non nasconde la volontà di costruire buone relazioni con Gerusalemme, per fare da garanti a un futuro governo della Striscia in cui potrebbe tornare ad avere un ruolo Fatah, il partito laico che fu di Yasser Arafat.

Difficile invece che Netanyahu accetti l’intervento di un corpo di pace delle Nazioni unite, sempre rifiutato in passato e ancora men probabile ora dopo l’esperienza di Unifil nel sud del Libano, finita sotto bersaglio del cannoni di Tsahal e accusata senza mezzi termini di non aver garantito il disarmo di Hezbollah come era previsto dalle regole d’ingaggio.

Ecco il terzo problema di Netanyahu: come rientrare nel consesso internazionale dopo aver tagliato i ponti con l’Onu, aver litigato con gli Stati Uniti, con gran parte dei Paesi europei. E uscire dall’isolamento in cui si è coscientemente cacciato.

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