Berlinguer leggeva le alleanze non come somma di sigle, ma come una rete del consenso capace di estendersi a una maggioranza del paese scorgendo in questo l’anticorpo verso potenziali aggressioni alle libertà e diritti costituzionali
Esce giovedì 31 ottobre nelle sale il film di Andrea Segre, Berlinguer. La grande ambizione, con un inarrivabile Elio Germano a restituire gesti e voce al segretario comunista più amato e rimpianto.
La sceneggiatura copre un arco di tempo limitato: si parte dall’attentato subito a Sofia il 3 ottobre del 1973 quando un camion speronò la berlina sovietica dove Berlinguer viaggiava assieme a un dirigente del partito bulgaro e all’interprete che sarebbe morto nell’impatto.
La conclusione coincide, invece, col rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’unico interlocutore che Berlinguer ha avuto nella Dc lungo gli anni di preparazione e costruzione del compromesso storico. Cinque anni solamente, ma determinanti per comprendere la strategia del più grande e originale Partito comunista dell’Occidente.
Gli articoli su Rinascita
Il viaggio in Bulgaria si tenne a meno di un mese dal golpe cileno e la fine cruenta dell’esperienza di governo di Unidad popular. Su quell’evento Berlinguer elaborò un’ampia riflessione destinata a trovare spazio in tre lunghi interventi pubblicati su Rinascita, la rivista teorica del partito fondata da Palmiro Togliatti nel 1944.
Il primo articolo uscì il 28 settembre col titolo Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, vi si inquadrava il contesto storico – oggi diremmo, geopolitico – che aveva determinato l’isolamento e poi la soppressione dell’esperimento di Salvador Allende. Una settimana dopo, il 5 ottobre, la seconda parte, Via democratica e violenza reazionaria, integrava l’analisi rivendicando il valore dell’unità conseguita dalle forze popolari contro il nazi-fascismo, ma nella consapevolezza delle insidie mosse da gruppi e interessi conservatori e reazionari disposti a colpire gli stessi istituti della democrazia.
Sarebbe stato il terzo articolo uscito il 12 ottobre a tradurre quell’impianto in una nuova proposta politica. Il titolo, Alleanze sociali e schieramenti politici, sollevava i termini dell’approdo possibile per la democrazia italiana cogliendo nella combinazione tra «consenso» e «forza» la pratica necessaria a evitare il dramma di un’Italia spaccata e di una democrazia esposta a nuove trame eversive.
Le alleanze
Berlinguer leggeva le alleanze non come somma di sigle, ma come una rete del consenso capace di estendersi a una maggioranza del paese scorgendo in questo l’anticorpo verso potenziali aggressioni alle libertà e diritti costituzionali.
Scriveva il segretario del Pci, «(…) noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti di lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra».
Forse qui col massimo richiamo alla matrice togliattiana la riflessione proseguiva nel marcare lo stretto legame tra la storia antecedente e la novità in atto. Lo declinava con queste parole, «Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista, e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche».
A scanso di equivoci, trovo sia pessima regola trarre da contesti lontani e incompatibili similitudini poco realistiche. E però una considerazione si giustifica, almeno alla luce di qualche lettura affrettata del voto ligure di domenica e lunedì. Anche oggi, come mezzo secolo fa, l’alternativa a questa destra passa dall’urgenza di evitare il saldarsi di un blocco moderato, liberale e di centro con l’anima più trumpiana che alberga tra gli eredi del fascismo e gli epigoni leghisti di legge, ordine e galera per chi protesta.
Obiettivo che si raggiunge non già prolungando la novella di tavoli formali o scomuniche reciproche, ma offrendo a ciascuno lo spazio che si pensa in grado di occupare. In questo senso il Pd esce dalle urne molto più che rafforzato e proprio il consenso crescente e l’impronta della sua leadership ci consentono di sfidare il partito della premier rivolgendoci a quei milioni di cittadini che disertano le urne perché orfani di un soggetto che li rappresenti.
Ma siccome nessuno può cullarsi nell’idea di bastare a sé stesso, quel mondo moderato, laico e cattolico, se davvero esiste trovi forme, modi, linguaggio e profili per aggregarsi attorno a un progetto alternativo alle pulsioni autoritarie in capo al pessimo governo che c’è. Il tempo per fare entrambe le cose non è infinito, ma c’è. Sciuparlo in rimbrotti e recriminazioni sarebbe un peccato quasi imperdonabile. Chi nutra qualche dubbio rubi due ore di tempo ad altro e vada al cinema a vedere quel film. Non se ne pentirà.
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