Nella conferenza stampa sul provvedimento in tema di sicurezza, che il governo ha trasformato da disegno di legge in decreto legge, si è verificato un evento singolare. I ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi hanno provato a “normalizzare” talune distorsioni nell’uso della decretazione di urgenza, delle norme penali e di una certa prassi legislativa. Siccome questo è molto grave, può essere utile un chiarimento.

Va premesso che il disegno di legge Sicurezza (ddl) era stato approvato dal Consiglio dei ministri nel novembre 2023, e la discussione in parlamento era iniziata il 27 febbraio 2024. Lo scorso marzo, dopo due letture, la Ragioneria generale dello stato aveva rilevato un errore: le coperture finanziarie erano state previste a partire dal 2024, anziché dal 2025. Ciò avrebbe richiesto una correzione, e quindi un’ulteriore lettura del provvedimento, con un allungamento dei tempi.

Necessità e urgenza

Il governo ha l’onere di provare i presupposti di «necessità e urgenza» previsti per i decreti legge dall’articolo 77 della Costituzione. «Abbiamo pensato di dare una data certa di approvazione a un provvedimento che era stato preannunziato con grande importanza dal governo», ha detto Piantedosi.

Il decreto legge si è reso necessario perché il parlamento era andato «già troppo per le lunghe», «si era perso troppo tempo», e «questa è la necessità e l’urgenza» che il governo ha ravvisato. Ma tale motivazione non legittima l’uso del decreto. O si dimostra, ad esempio, che i reati contemplati dal decreto stesso hanno subito un’impennata, o che comunque nuove circostanze hanno mutato la situazione esistente al momento della presentazione del ddl e richiedono un intervento immediato, oppure il requisito dell’urgenza resta privo di fondamento.

È vero che il decreto legge è l’unico strumento legislativo che consente una data certa di approvazione, in ragione del termine costituzionale di sessanta giorni per la conversione. Ma allora ci si chiede perché, invece di distorcerne l’uso, il governo non abbia avanzato, ad esempio nell’ambito della riforma del premierato, proposte per velocizzare l’iter parlamentare, come “corsie privilegiate” per il varo di determinate leggi o il monocameralismo.

Il panpenalismo

Per il Guardasigilli Nordio, l’accusa di panpenalismo spesso rivolta al governo è infondata: è vero che il decreto introduce nuovi reati e inasprimenti di sanzioni, ma il fine è quello di garantire «certezza della pena e soprattutto certezza anche della sicurezza dei cittadini».

Peccato che certezza della pena significhi punire i colpevoli in modo effettivo e tempestivo, cosa che può essere assicurata solo da una giustizia che funzioni bene. E se la giustizia non funziona bene, come in Italia, l’aumento di reati, pene e aggravanti non garantisce ai cittadini maggiore sicurezza.

Il ministro ha giustificato tale aumento anche affermando che «il diritto penale si deve evolvere secondo le necessità di tutela evidenziate dallo svolgersi degli eventi». Nordio ha omesso di dire che le fattispecie previste dal decreto erano comunque già sanzionate. E soprattutto non ha spiegato perché, nell’ottobre 2022, dopo il giuramento come ministro della Giustizia, aveva affermato che «la velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati», mentre ora agisce in senso opposto.

La chiarezza delle leggi

Il Guardasigilli ha infine detto che si tratta di un «corposissimo decreto legge di 34 articoli», che «è complicato anche leggerlo», ma «la tecnica legislativa è questa». Al ministro andrebbe ricordato che questa è la «tecnica» – parola con cui Nordio nobilita una pessima prassi – che esperti in tema di qualità della regolamentazione criticano da tempo.

E l’hanno fatto, da ultimo, presso i Comitati per la legislazione di Camera e Senato, durante l’indagine su profili critici della produzione legislativa, stigmatizzando il ricorso sistematico ai decreti legge; l’adozione di norme frammentate che contengono rinvii, richiami e riferimenti ad altre norme contenute in fonti diverse, con conseguente «illeggibilità e difficoltà interpretativa».

Alla «chiarezza dei testi normativi» è intitolata una disposizione (l. n. 400/1988, art. 13-bis, introdotto nel 2009), che detta principi generali tesi ad assicurarne la «chiara comprensione» e impone al governo di attenervisi. Se il ministro ammette che è complicata addirittura la lettura del nuovo decreto legge, figuriamoci capirlo, si sta autodenunciando per la violazione della disposizione citata?

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