Un terzo del bilancio europeo (quasi quattrocento miliardi) è destinato proprio all’agricoltura. Questo vuol dire una sola cosa: che gli piaccia o no, i prossimi parlamentari europei dovranno occuparsene e decidere, ad esempio, come indirizzare quelle risorse nella nuova Pac, la prossima Politica agricola comune
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Siamo alla vigilia delle elezioni europee e, anche questa volta, il grande assente del dibattito pubblico è il cibo, l’agricoltura, i sistemi alimentari.
Posso perfino comprendere che non se ne parli nei talk show che interpretano la campagna elettorale esclusivamente in chiave nazionale, ma quello che davvero non riesco a comprendere è perché l’agricoltura non entri nell’agenda politica come uno dei temi centrali della campagna elettorale.
Il peso dell’agricoltura
Eppure non è così irrilevante se pensiamo che un terzo del bilancio europeo (quasi quattrocento miliardi) è destinato proprio all’agricoltura. Questo vuol dire una sola cosa: che gli piaccia o no, i prossimi parlamentari europei dovranno occuparsene e decidere, ad esempio, come indirizzare quelle risorse nella nuova Pac, la prossima Politica agricola comune.
Continueranno – come sta succedendo ora – a cancellare le misure ecologiche dell’agricoltura per strizzare l’occhio a diversi settori dell’agro-industria e a farci credere che l’ecologia sia nemica dell’agricoltore? Oppure, come spero, sapranno accompagnare il settore primario verso una conversione ecologica che sappia tenere insieme le esigenze produttive con una non più rimandabile sfida alla crisi climatica?
Votare a destra o sinistra, quando sia parla di cibo e di agricoltura, non è neutrale. Esistono visioni contrapposte, idee molto diverse. E varrebbe la pena metterle a confronto, discuterle, conoscerle. Ma ogni volta che si parla di cibo e di agricoltura si finisce con la solita retorica – un po’ stantia a dire il vero – del Made in Italy, delle eccellenze italiane, di quanto si mangi bene in Italia, anzi no, in ogni regione, ma che dico, in ogni città che ha decine e decine di piatti tipici, perché “mia nonna lo cucinava così”.
E mentre avanza la retorica del Made in Italy, continuiamo ad assistere alla chiusura delle aziende agricole, stanche di non guadagnare abbastanza, esauste della burocrazia e delle carte da firmare, travolte da eventi metereologici estremi che ormai sono quotidiani e che colpiscono frutta, verdura, cereali, rendendoli invendibili. Basterebbe ricordare quel che è successo nell’alluvione dell’Emilia-Romagna di un anno fa o, se la memoria non ci aiuta, sarebbe sufficiente guardare alle rivendicazioni fatte nel corso della protesta dei trattori, sulle prime pagine dei giornali per mesi, per ricordarci che in Italia e in Europa esiste una grande questione che riguarda il giusto prezzo: quanto costa il cibo che mangiamo? quanto viene pagato all’agricoltore?
La genesi della Pac
La risposta è che il cibo costa troppo e, allo stesso tempo, troppo poco. Costa troppo per quelle migliaia di famiglie che non possono permetterselo ma costa troppo poco per remunerare adeguatamente l’agricoltura e non scaricare i costi sociali e ambientali sulla collettività.
I Trattati di Roma firmati nel 1957, e considerati l’atto di nascita dell’Unione per come la conosciamo oggi, davano espresso mandato di “assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori”.
La Pac è stata lanciata nel 1962, dopo anni di difficoltà e di crisi alimentari, proprio per aumentare la produzione agricola, garantire la sicurezza alimentare, assicurare una qualità della vita dignitosa agli agricoltori e stabilizzare i mercati mantenendo prezzi ragionevoli. Insomma l’Europa esiste anche per questo, per dare risposte, cioè, sul futuro del cibo che mangeremo. Ma di questo la campagna elettorale – e la politica – sembra non essersene accorta.
© Riproduzione riservata