I segnali di nervosismo da parte di Giorgia Meloni non mancano. Le sparate contro i “radical”, la minimizzazione dell’impatto di un eventuale flop popolare del premierato («se non passa il referendum, chissene importa») sono l’eco di un allarme rosso a palazzo Chigi. Qualcosa in campagna elettorale sta andando meno bene del previsto, se non addirittura storto. Gli ultimi sondaggi – vietato pubblicarli, ma possono essere effettuati e circolano fra addetti ai lavori – segnalano la frenata di FdI e il calo di gradimento verso la premier. Secondo la media dei diversi istituti di ricerca, la soglia “psicologica” del 30 per cento non è ancora a portata di mano.

Al piano di sotto della classifica le cose vanno un po’ meglio. Chi lavora a stretto contatto con la segretaria Pd Elly Schlein mette in chiaro che da quelle parti ai sondaggi «crediamo poco». È scaramanzia: prima delle primarie dem erano pochissimi i sondaggisti che davano vincente la segretaria, ed erano accolti con generale scetticismo. Comunque la quota 22,7 (quella del 2019) non sembra più inarrivabile. A dispetto del precedente delle politiche del 2022, con Enrico Letta, la polarizzazione i fra Meloni e Schlein stavolta sembra pagare: in giro per l’Italia, viene giurato, si percepisce che il Pd può raccogliere il voto “anti-Meloni”.

Chi accorcia, chi allunga

Oltre al risultato in sé, fra i dati più attenzionati ci sono gli “spread”, ovvero i differenziali negli scontri diretti. Se anche Meloni dovesse prendere una valanga di voti, da capolista FdI in tutte le circoscrizioni, e persino anche molto più di Schlein, capolista Pd solo al Centro e nelle Isole, il risultato ambito, per la principale forza dell’opposizione, sarebbe quello di accorciare le distanze con la principale forza della maggioranza.

Così, sempre per il Pd, nella tombola europea l’altro numero delicato è la distanza con il M5s. Secondo le ultime rilevazioni note, sarebbe già una distanza di sicurezza; che fa prenotare a Schlein il posto da capotavola in un eventuale tavolo dell’alleanza di centrosinistra.

Ma, attenzione, sarebbe un risultato a doppio taglio. Se Giuseppe Conte avrà un risultato scarso, non è detto che si rassegnerebbe al ruolo di junior partner dell’alleanza. Anzi, in molti sono convinti che il calo di consensi lo spingerebbe a insistere sul tasto identitario: quindi a marcare ancora di più le distanze con gli alleati. Ed è un destino parallelo, ancora una volta con l’ex alleato del governo gialloverde. Il timore da questa parte, è quello che a destra Meloni e Antonio Tajani hanno nei confronti di Matteo Salvini: un risultato umiliante per il leghista aprirebbe una fase di turbolenza nella maggioranza.

Infine le sfide fra i centristi dell’opposizione. Azione e Stati uniti d’Europa sono impegnati in una doppia fatica. Da una parte acchiappare il 4 per cento, dall’altra prendersi la soddisfazione di prevalere sull’altro, per l’eterna singolar tenzone fra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Ieri il leader di Azione ha ammesso, a Canale 5, che il suo obiettivo «è superare il 5 per cento, è una soglia psicologica» per «far capire agli italiani che c’è un’alternativa tra votare contro Meloni o votare contro Schlein». Ma poi c’è il significato politico del duello: chi lo vince può rivendicare dell’elettorato per ricucire il centro. Renzi mette le mani avanti: «Le europee servono per contare in Europa non per contarsi in Italia». Replica Calenda, su Radio 1: quelli di Stati uniti d’Europa «non è sicuro nemmeno che dopo andranno insieme». Che sia il punto, lo ammette Emma Bonino: «Con Calenda il dialogo dobbiamo farlo noi, e sbrigarci pure».

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