Il 5 agosto del 1992 era un affascinante quarantenne impeccabilmente vestito in blu con camicia bianca che, ante litteram, incarnava uno dei più famosi detti di José Mourinho: «Chi sa tutto di calcio non sa niente di calcio». Sapeva tutto di pallavolo, ovviamente, ma anche di filosofia, psicologia, storia, politica. È da allora che aspettava
Il 5 agosto del 1992 Julio Velasco era un affascinante quarantenne impeccabilmente vestito in blu con camicia bianca che, ante litteram, incarnava uno dei più famosi detti di José Mourinho: «Chi sa tutto di calcio non sa niente di calcio». Sapeva tutto di pallavolo, ovviamente, ma anche di filosofia, psicologia, storia, politica.
Aveva issato una nazionale prima di lui mediocre sul tetto del mondo ed era stato eletto guru anche per un eloquio con il quale sfornava massime imperdibili per la gioia dei titolisti. Proverbiale la ricetta secondo la quale, per vincere, bisognava avere gli occhi della tigre e non quelli della mucca. Alle Olimpiadi di Barcellona la sua squadra di fenomeni, le prime vere star italiane del volley, era superfavorita. Giocava come se il successo fosse inevitabile, un atto notarile che ne certificasse la supremazia.
L'Olanda dei quarti di finale doveva essere una formalità burocratica resa tanto più semplice dall'infortunio di un avversario chiave, il palleggiatore Blangé. La schiacciata di van der Meulen che chiuse il quinto set fu lo schiaffo inatteso che ci riduceva alla mucca. Negli spogliatoi Velasco evitò i processi con una semplice frase: «Chi vince festeggia chi perde spiega».
Nessuno osò imputargli nulla, sarebbe stata irriconoscenza oltre che lesa maestà. Lo candidarono a qualunque poltrona, compresa quella di ministro dello Sport nell'Italia di Tangentopoli. Preferì riprovarci nel 1996 ad Atlanta e si ritrovò l'Olanda, stavolta in finale, altro rovescio, 17-15 al quinto set. E dovette spiegare per la seconda volta, prima di dimettersi.
Fine dell'epopea del sestetto giudicato il migliore di sempre, il destino dei meravigliosi perdenti che è toccato anche all'Olanda del calcio, l'Olanda di Cruyff degli Anni Settanta. Ma non fine per l'allenatore, il Julio Velasco tanto poliedrico da cimentarsi come dirigente del pallone, prima nella Lazio di Cragnotti e poi nell'Inter di Moratti, come conferenziere per manager, anche in cattedra nelle università.
Ma certi amori non finiscono e gli strani giri che hanno fatto più volte lo hanno riportato con alterne fortune nel campo con la rete nel mezzo, ma senza più il tocco magico a cui era mancata solo una pennellata per finire il capolavoro. Fino all'ultima chiamata, quattro mesi fa. C'era da ricostruire nello spirito una squadra di fenomene tormentata dalle polemiche ma parecchio talentuosa. C'era, trentadue anni dopo, da finire un lavoro, il lavoro in cui eccelle perché riguarda la testa più dei muscoli.
L'11 agosto 2024, ieri, Julio Velasco è un settantaduenne incanutito, veste una tuta con la scritta “Italia”, calza scarpe da ginnastica, ha il doppio mento. Non ha sentenze storiche da regalare agli archivi, solo il banale “qui ed ora” che è il suo mantra di Parigi.
Le ragazze celano gli occhi della tigre dietro il sorriso della forza dei nervi distesi. Strapazzano le americane nella finale ed è suggestivo pensare che prima della corsa all'oro, quando tutto si deve compiere, sia stata usata la frase, una sola, pronunciata da un altro straniero venuto a portare gloria all'Italia, il Boscia Tanjevic che sempre in Francia nel 1999 prima del match decisivo contro la Spagna del basket per il titolo Continentale disse: «Andate in campo e spazzateli via».
Julio festeggia stavolta, non deve spiegare. Ribadisce che il trono di Olimpia non era un'ossessione. Magari un risarcimento e persino più grande della semina di trent'anni fa se sottolinea: «La pallavolo per le donne è come il calcio per gli uomini perché è lo sport più praticato dal genere femminile».
Risarcito lui, risarcito Lollo Bernardi, in panchina al suo fianco, considerato mister secolo nel secolo scorso. Risarcito Andrea Giani, il giorno prima ma con un altro tricolore addosso, quello francese. Piace raccontarla così anche se forse non è così. Queste sono altre storie perché il bello dello sport è che chiuso un capitolo, domani si riparte da zero. E sono tutti zoppi i paragoni.
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