- Sono già molti anni che ci si è cominciati a domandare quale sarà il destino della memoria della Shoah una volta che tutti i sopravvissuti saranno scomparsi. Una svolta inevitabile, dovuta allo scorrere inesorabile del tempo, che non tiene conto delle nostre necessità e che falcia, l’uno dopo l’altro, i sopravvissuti.
- Dal processo Eichmann in poi, i testimoni sono parte essenziale della costruzione memoriale, ma non sono l’unica fonte a cui risalire.
- Il terreno principale su cui coloro che sono intenzionati a mantenere e a costruire la memoria della Shoah devono muoversi è, credo, quello della storia.
Sono già molti anni che ci si è cominciati a domandare quale sarà il destino della memoria della Shoah una volta che tutti i sopravvissuti saranno scomparsi. Una svolta inevitabile, dovuta allo scorrere inesorabile del tempo, che non tiene conto delle nostre necessità e che falcia, l’uno dopo l’altro, i sopravvissuti. Perché, quando ancora lo sterminio nazista degli ebrei non aveva un nome, né Olocausto né Shoah, e faticava a distinguersi dagli orrori di una guerra che aveva preso come obiettivo i civili in una misura mai raggiunta prima, la memoria della Shoah era nata e si era costruita in molta parte sui ricordi di chi era sopravvissuto ai campi e ne aveva narrato le atrocità.
Erano prima stati gli scritti, le memorie di quanti avevano affidato alla penna la loro testimonianza, molti fra loro gli ebrei ma molti anche i politici, i resistenti: fra i primi, la francese Germaine Tillon, che ha raccontato il terribile campo femminile di Ravensbrück, e Margarete Buber-Neumann, che è stata, come lei stessa si è definita, prigioniera sia di Stalin che di Hitler, e in Italia ben otto sopravvissute ebree i cui libri sono stati pubblicati fra il 1945 e il 1948, e naturalmente Primo Levi, la prima edizione del cui libro è uscita nel 1947, per non citare che i più noti.
Ancora non c’erano opere storiche dedicate alla Shoah, la prima a essere pubblicata in Italia sarebbe stata quella di Léon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, uscita per Einaudi nel 1955 nella traduzione di Annamaria Levi, la sorella di Primo, e con una prefazione di François Mauriac. Solo più tardi, sarebbero sopraggiunti i testimoni.
Il processo Eichmann
Si è cominciato con il processo a Gerusalemme ad Adolf Eichmann. Il principale responsabile e organizzatore dello sterminio degli ebrei fu, com’è noto, individuato in Argentina e rapito nel 1960 dai servizi segreti israeliani. Portato in Israele, nell’emozione dell’intero paese, fu sottoposto a un processo, dove sono stati chiamati a dar testimonianza oltre cento sopravvissuti da ogni parte dell’Europa occupata, che hanno raccontato le loro storie.
Più che un processo a Eichmann è stato un processo alla Shoah, in cui hanno testimoniato alla sbarra i sopravvissuti da tutta Europa. La memoria della Shoah, come evento storico diverso dalle violenze della guerra e dalle uccisioni, anche nei campi, di oppositori, resistenti, deportati politici, comincia davvero a crescere da quel momento e soprattutto si definisce come oggetto specifico, sempre più caratterizzato da una sua “unicità”. Definizione quest’ultima affermatasi pochi anni dopo, nel 1967, in un confronto a New York tra studiosi ebrei di grande levatura, fra cui Elie Wiesel.
Oggi, si va piuttosto affermando, di contro all’etichetta di unicità, quella di evento senza precedenti.
Dal processo Eichmann in poi, i testimoni sono parte essenziale della costruzione memoriale. Dalle aule del tribunale di Gerusalemme passano, moltiplicati, nella società, nei media, nelle scuole. Non più testimoni in senso giudiziario, diventano i testimoni di ciò che è stato. Non che la costruzione della memoria sia affidata solo a loro, ché contemporaneamente si moltiplicano i libri, le memorie scritte, le opere di analisi storica. Storia e memoria procedono affiancate, o almeno avrebbero dovuto farlo, ché in molti momenti si è avuta invece la sensazione che la memoria sovrastasse la storia, la inglobasse.
Infinite prove
Dopo questa stagione, non a caso definita da una storica francese, Annette Wieviorka, come «l’èra dei testimoni», il tempo ha cominciato a falciare i sopravvissuti e ci si è cominciati a domandare cosa sarebbe successo quando di testimoni non se ne sarebbero trovati più, quando nessuno sarebbe più andato a raccontare ai ragazzi delle scuole l’arrivo dei vagoni piombati sulla rampa di Auschwitz-Birkenau e la selezione per le camere a gas, mescolando ai ricordi degli eventi la memoria di come li avevano vissuti e percepiti. Quale ne sarebbe stato l’effetto sulla memoria della Shoah, ormai divenuta uno dei pilastri della nostra percezione etica e politica del passato? Si sarebbe conservata, si sarebbe modificata, e semmai in che direzione? Se non era più possibile ascoltare le voci, si sarebbe continuato a leggere le parole?
Innanzitutto è importante sottolineare che i testimoni non sono l’unica fonte a cui risalire, che le loro parole non sono l’unica prova che abbiamo dei campi e dello sterminio degli ebrei. Non esiste infatti vicenda storica più documentata, maggiormente descritta dai documenti. Documenti per lo più redatti dagli stessi carnefici, tratti dagli archivi dei campi di sterminio, dalla documentazione sui trasporti e dagli infiniti documenti necessariamente prodotti da una burocrazia volta a organizzare la caccia all’ebreo, la sua cattura, la partenza per i campi di milioni di esseri umani, la loro selezione e il loro annichilimento nel gas e nei forni crematori.
I nazisti, pur determinati a cancellare le tracce della loro azione, non sono riusciti a farlo che in minima parte. Accanto ai documenti, ora raccolti in parte nell’immenso archivio di Bad Arolsen, in Germania, che ne conserva oltre trenta milioni, ci sono le tracce materiali, quelle che vediamo esposte nelle sale di Auschwitz. E ancora, le camere a gas interrate e semidistrutte che rivelano, come negli scavi di quella nuova branca dell’archeologia che è l’archeologia dei lager, la loro spaventosa funzione, sbugiardando i negazionisti. E i filmati, come quello terribile che ci mostra gli Alleati a Bergen Belsen obbligare i tedeschi che abitavano nella zona a dissotterrare i cadaveri ammucchiati nelle fosse comuni. E le foto, come quelle famose della distruzione del ghetto di Varsavia, fatte fare dal comandante nazista Jürgen Stroop per documentare a Hitler, in occasione del suo compleanno, che il ghetto di Varsavia non esisteva più. No, non ci sono solo i testimoni, ma infinite prove di diverso genere, che tutte ci documentano la stessa storia.
Ecco quindi che quando nei lager i nazisti dicevano agli internati ebrei, ce lo racconta Primo Levi, che se anche fossero sopravvissuti nessuno avrebbe loro creduto, si sbagliavano. I sopravvissuti lo hanno preso come un monito a usare la loro sopravvivenza per testimoniare, e hanno ubbidito a questo monito, per quanto doloroso fosse. Basti a provarlo quella terribile pagina di Se questo è un uomo in cui Levi racconta il sogno del non essere ascoltati, sogno comune a tutti gli internati. La loro voce è stata fondamentale e ha trasmesso non solo i fatti ma il dolore, il senso della morte, l’orrore. E questa è la funzione della memoria.
Il ruolo della storia
Ma per provare la Shoah, per descriverne i meccanismi, per ricordare i nomi delle vittime, come quelli dei carnefici, abbiamo anche altre prove, ne siamo sommersi. E questa è la funzione della storia. Certo, ci sono cose che solo i testimoni possono trasmettere: emozioni, memoria delle percezioni avute, fin le rimozioni e gli oblii. A volte le contraddizioni, perché no?, fra la memoria di ieri e quella dell’oggi. Ed è vero che a volte i più giovani preferiscono essere trascinati a livello emozionale che razionale, percepire col cuore e non solo con l’intelligenza.
Una volta, quando ho portato in una scuola media un’anziana signora sopravvissuta di cui avevano letto, i bambini la toccavano e dicevano: «È vera!». Tutto questo ha avuto una funzione importantissima, determinante, ma quando non ci sarà più dovremo per forza farne a meno. Nessuno, nemmeno un figlio, può sostituire un testimone diretto. E allora? Lasciare che la memoria si offuschi, si affievolisca il ricordo, e questa storia diventi una storia come le altre del passato, le guerre puniche, Napoleone?
Se ci aggrappiamo solo a questo aspetto emozionale, la scomparsa della voce viva e vibrante dei protagonisti non può che offuscare la memoria. Ma gli strumenti sono ormai infiniti. Le voci e i volti dei protagonisti sono stati infinite volte registrati in innumerevoli video, di diversa riuscita e portata, ma comunque di valenza testimoniale inestimabile. Pensiamo solo all’immenso lavoro fatto da Steven Spielberg con la Fondazione Shoah, un tentativo di registrare tutte le voci dei sopravvissuti intendendo per “sopravvissuto” qualunque ebreo nato e vissuto in Europa prima del 1945. Ne sono derivate oltre 50mila interviste. Quelle degli ebrei italiani, in tutto 433, sono depositate in copia all’Archivio centrale dello stato, a Roma, e consultabili online.
Ma il terreno principale su cui coloro che sono intenzionati a mantenere e a costruire la memoria della Shoah devono muoversi è, credo, quello della storia, un terreno in cui la costruzione memoriale in questi anni si è mossa con qualche difficoltà e carenza. È un terreno più difficile per quanti, nelle scuole o altrove, hanno finora creduto che bastasse chiamare un sopravvissuto per esercitare quella funzione catartica che si crede necessaria, ad esempio, a celebrare la Giornata della memoria. La catarsi è importante, ma quando non ci saranno più persone in carne e ossa a consentirci di esercitarla, sarà forse necessario, soprattutto per chi vuol svolgere una funzione di insegnamento, tornare alla storia, usare le testimonianze non per suscitare emozioni (o non solo, se preferite) ma per conoscere.
Non ci può essere memoria di qualcosa che non si conosce che per sommi capi. La memoria della Shoah non è, in conclusione, in pericolo per la scomparsa dei testimoni. Se lo è, e credo che non sia un’ipotesi peregrina, lo è semmai per la crisi della funzione che ha esercitato finora di essere, nella costruzione dell’Europa unita, un monito contro il razzismo, l’antisemitismo, la violenza. Di essere insomma un imperativo etico e politico che si concretizza nel richiamo all’evento più estremo del nostro passato recente.
Nuovi eventi estremi, sia pur ovviamente diversi da quello, ma ugualmente non contrastati, non combattuti, possono mettere in crisi questo richiamo alla Shoah, questo impegno a evitare che si ripeta. La crisi dell’Unione europea, che alla memoria della Shoah molto si richiama, può avere una funzione analoga. Ma in sé, la scomparsa dei testimoni può e deve solo spingerci a studiare e approfondire nuovi modi di trasmissione, nuovi percorsi memoriali. Continuando naturalmente a ricreare in noi, mentre lo facciamo, la stessa partecipazione con cui lo hanno fatto coloro che ci stanno a poco a poco lasciando. Perché, mentre ci si volge alla storia, non vada perduta la passione di chi ci ha finora tramandato e trasmesso questa memoria.
Il testo è un estratto dal nuovo numero di Vita e pensiero, disponibile dal 16 gennaio.
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