- La Commissione europea ha recentemente presentato una proposta per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 imperniata sull’espansione del Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Ue.
- Il presidente di Confindustria ha dato voce al timore di molti sottolineando come gli aggravi di costo finiranno per mettere in crisi l’industria manifatturiera europea.
- Ciò che viene comunemente ed erroneamente considerato un costo da minimizzare deve invece essere considerato come una risorsa da valorizzare. Questo è vero per gli investimenti in tecnologie innovative e sostenibili di cui si parlava sopra, ma ha portata più generale.
La Commissione europea ha recentemente presentato una proposta per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 imperniata sull’espansione del Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’Ue. Obbligando a comprare dei “diritti di emissione” di Co2 il sistema impone alle imprese di internalizzare i costi delle attività inquinanti e in passato si è dimostrato efficace nell’incentivare la conversione verso tecnologie verdi.
La proposta della Commissione prevede di potenziare il meccanismo aumentando il prezzo di acquisto dei diritti di emissione ed estendendo lo schema a settori e attività finora esclusi, come il trasporto (di fatto la proposta implica la messa al bando dei motori termici per gli autoveicoli nuovi entro il 2035) e il riscaldamento degli immobili.
Qualche giorno fa il presidente di Confindustria ha dato voce al timore di molti sottolineando come gli aggravi di costo finiranno per mettere in crisi l’industria manifatturiera europea e come, visto il nostro ritardo nello sviluppo di tecnologie verdi (dal fotovoltaico alle batterie elettriche), la decarbonizzazione finirà per favorire altri paesi (la Cina su tutti). Molti si sono concentrati sulla prima delle due affermazioni, ma la seconda è quella probabilmente più interessante, con implicazioni che vanno al di là della transizione ecologica.
La politica industriale
Uno degli effetti della crisi finanziaria del 2008, ne abbiamo parlato più volte, e stato il ripensamento del ruolo dello stato nel regolare il ciclo economico e nell’agire da motore per la crescita di lungo periodo. Economisti e policy maker si chiedono oggi in che modo si debba affiancare alla mano invisibile del mercato, non sempre efficiente, la mano visibile della politica economica.
Lasciar fare ai mercati oggi non sembra più (se mai lo è stata), un’opzione ragionevole. Con la crisi del Covid il dibattito è stato rilanciato, enfatizzando in particolare la politica industriale. In un momento in cui la pandemia si intreccia con i nodi arrivati al pettine del cambiamento climatico, diventa ancora più rilevante il lavoro di economisti come Mariana Mazzucato, volto a capire quale ruolo lo stato possa avere per canalizzare le risorse pubbliche e private verso settori e attività che più contribuiscano al benessere collettivo e a una crescita sostenuta e sostenibile.
Già con il Next generation Eu, l’Europa ha fatto la scelta di non finanziare a pioggia, in modo indiscriminato, gli investimenti per la ripresa, ma di selezionare settori specifici (transizione ecologica, digitalizzazione, coesione territoriale); una scelta oggi consensuale, che invece solo qualche anno fa avrebbe dato il via a infinite polemiche sulle ingerenze di Bruxelles nell’economia dei paesi membri.
È in questo dibattito che vanno inquadrati, e a mio parere minimizzati, i timori innescati dalla proposta della Commissione. Nelle scorse settimane, sul Financial Times, Martin Sandbu rifletteva proprio su come un ruolo importante per la politica industriale sia di cambiare gli incentivi per il settore privato e su come questo possa essere fatto in molti modi. Ai tradizionali sussidi per le attività che si vuole incentivare, oggi vengono affiancati con sempre maggior frequenza ostacoli di natura regolamentare volti a distogliere risorse dai settori meno promettenti (in termini di crescita, di potenziale tecnologico, di impatto sulla transizione ecologica).
Sandbu porta proprio l’esempio della proposta della Commissione nella quale, secondo l’editorialista britannico, l’obiettivo della decarbonizzazione convive con quello, altrettanto ambizioso, di dare un impulso decisivo allo sviluppo industriale e tecnologico europeo, facendogli colmare il ritardo che lo separa da altri paesi. Proprio nel settore su cui si concentrano le maggiori critiche, quello del trasporto, l’ambizione della Commissione è di favorire l’emergere di campioni europei capaci di sviluppare tecnologie innovative e di soddisfare una domanda globale (ad esempio di veicoli elettrici) destinata a esplodere nei prossimi anni.
Si tratterebbe insomma di forzare i mercati ad abbandonare il rassicurante business as usual e fare quel salto verso il futuro nel quale finora hanno esitato a lanciarsi, consegnando la leadership ad altri paesi. Quindi, è certo vero, se si guarda all’oggi, che i timori possono essere giustificati: le misure a sostegno della transizione ecologica europea rischiano di portare benefici soprattutto per i nostri concorrenti. Tuttavia, siccome il ritardo che abbiamo accumulato finirà comunque per metterci prima o poi fuori mercato, la proposta della Commissione potrebbe in realtà essere un’àncora di salvezza e costituire un potente strumento proprio per colmare il nostro ritardo tecnologico, sottraendoci a un destino già scritto.
Se i costi sono risorse
Insomma, se riusciamo a sottrarci alla dittatura del breve periodo, concentrandoci sul film dello sviluppo tecnologico invece che sull’istantanea in un dato momento, diventa evidente che ciò che viene comunemente ed erroneamente considerato un costo da minimizzare deve invece essere considerato come una risorsa da valorizzare. Questo è vero per gli investimenti in tecnologie innovative e sostenibili di cui si parlava sopra, ma ha portata più generale.
Ad esempio per il mercato del lavoro, dove la corsa a competere pagando salari sempre più bassi può premiare nel breve periodo ma essere un handicap insormontabile nel lungo periodo, quando questi causano cali della produttività e perdita di “capitale umano”.
Salari più elevati e rapporti di lavoro stabili consentono l’adozione di tecnologie a più alta intensità capitalistica e quindi maggiore produttività, mantenendo al contempo la domanda, e conseguentemente la crescita e l’occupazione, elevata.
La letteratura empirica recente documenta come l’imposizione di quello che un tempo era considerato una “distorsione”, il salario minimo, nel medio periodo favorisca un aumento dell’investimento e la riallocazione del lavoro verso impieghi più produttivi. Insomma, è sempre più convincente l’evidenza per cui non è la bassa produttività a determinare salari stagnanti, ma il contrario. Si pensi al cambiamento copernicano che questo potrebbe implicare per le politiche del lavoro, soprattutto in un paese come il nostro afflitto da una cronica stagnazione della produttività.
Accompagnare la transizione
Ovviamente, il passare dall’istantanea al film comporta anche un’attenzione accresciuta alle misure necessarie per minimizzare i costi della transizione che, se troppo elevati, potrebbero causarne il fallimento. È per questo che la proposta della Commissione prevede che parte degli accresciuti proventi della vendita di diritti di inquinamento vadano ad alimentare un fondo che aiuti le famiglie più modeste a sostenere i costi del riscaldamento delle loro abitazioni.
Più in generale, è importante che la ritrovata enfasi sulla politica industriale e sull’uso di regolamentazione e restrizioni per favorire processi economici desiderabili dal punto di vista sociale, sia accompagnata da politiche fiscali volte a ridurre le disuguaglianze e, come era tradizione nel pensiero neoclassico di fine Ottocento, assicurarsi che i benefici globali siano redistribuiti tra vincenti e perdenti. Se c’è una cosa che gli ultimi anni ci hanno insegnato, è che nessuna politica, in un sistema economico complesso, può essere pensata e attuata nel vuoto.
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