Quello che sembrava dover essere un scontro ripetitivo e acrimonioso fra due uomini bianchi anziani, scontro, secondo i sondaggi, sgradito al 75 per cento degli americani, sta trasformandosi effettivamente e senza esagerazioni in una sfida per la conquista dell’anima degli Usa.

Oppure, meglio, per la (ri)definizione di quell’anima nel XXI secolo. Un uomo bianco ricco, anche di pregiudizi e di condanne, che fa leva sul rancore, da lui sollecitato, veicolato e rappresentato, che non è interessato all’anima, ma al potere, alla vendetta, contro una donna californiana progressista di colore, inevitabilmente lontanissima dal mondo di Trump, protagonista di una storia politica e professionale finora coronata da successi.

Girare pagina

Vicepresidente tenuta un po’ ai margini del circolo di Biden e incerta sulla definizione del suo ruolo, Kamala Harris si trova improvvisamente proiettata in una sfida già in stato avanzato. Sa che deve difendere e promuovere gli indubbi, ma non agli occhi dei repubblicani, risultati in campo economico e nella sanità, che deve salvaguardare il diritto delle donne all’autonomia nelle sfera riproduttiva, ma sa soprattutto che per vincere deve convincere quell’America plurale, multiculturale, diversificata che si aspetta una visione ottimistica e credibile di un futuro attualmente offuscato da guerre e disordine.

Harris può cambiare totalmente le modalità con le quali il conflitto politico si stava sviluppando. Ha la possibilità di girare pagina indicando un futuro plausibile nel quale tutte le minoranze si sentiranno a loro agio, protette e rispettate, ma anche garantite che saranno le loro capacità a fare la differenza.

Il sogno americano

Il sogno americano, variamente declinato e attrattivo, non è affatto svanito. Guardando al percorso del vicepresidente repubblicano designato, J.D. Vance, qualcuno potrebbe pensare che il successo arrida di preferenza ai sognatori con la pelle bianca. Quel centinaio di migliaia di uomini bianchi di mezz’età, privi di un diploma e con basso reddito che dal Michigan al Wisconsin e alla Pennsylvania decretarono la sconfitta di Hillary Clinton non sono andati via. Probabilmente continuano a ritenere che la risposta alla loro richiesta di status e di riconoscimento si trovi nello slogan Maga (Make America Great Again) e che i democratici continuino a sottovalutarli. A neppure cercare di comprenderli. Comunque, non vedono posto per loro in nessuna composita coalizione multicolore. Qui Kamala Harris trova l’ostacolo più alto.

Offrire anche a loro opportunità economiche e sociali è assolutamente necessario, imperativo. Potrebbe non bastare se a quelle opportunità non si accompagnano comportamenti credibili di comprensione, empatia, commozione.

La nota positiva è che i democratici sembrano essersi già rapidamente aggregati a sostegno della loro candidata (come oramai non potevano più fare con Biden). La nota al momento negativa è che non sta circolando nessuno slogan, nessuna frase a effetto che sia affascinante e trascinante (quanto sento la mancanza dei kennediani, a cominciare da Ted Sorensen!) e che contrasti verticalmente quello che è l’alquanto logorato Maga.

Trump e i suoi sostenitori, compresa la maggioranza della Corte suprema, vogliono far rivivere un passato morto, ma male sepolto. I democratici di Kamala Harris hanno la possibilità e il dovere di indicare come procedere verso la conquista e la rielaborazione dell’anima Usa nel prosieguo del secolo. Il tempo è poco, ma tuttora sufficiente.

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