Scompaiono i leader che si erano formati durante la Guerra fredda: l’arte del compromesso non è più una virtù: ora serve più radicalità
Nel 2022 c’era Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti, Nancy Pelosi come speaker della Camera dei rappresentanti e Mitch McConnell leader repubblicano al Senato, con Chuck Schumer come controparte dem.
Dal 2025 rimarrà il solo Chuck Schumer. Cos’hanno in comune questi esponenti politici? Si sono tutti formati negli anni finali della Guerra fredda e hanno tenuto posizioni di potere ben oltre la fine del mondo diviso in blocchi contrapposti.
Oggi lasciano il passo a uno scenario radicalmente differente, dove gli analisti di allora faticherebbero a orientarsi anche soltanto per capire le posizioni dei singoli partiti. Com’è potuto succedere che i mandati presidenziali di Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama non abbiano prodotto una nuova classe dirigente degna di questo nome?
Il gerrymandering
Ci sono varie ragioni. In primis l’invecchiamento della popolazione americana. Certo, un’età media di trentanove anni non giustifica i dati relativi all’età media di deputati e senatori: rispettivamente 57 e 63 anni. Un po’ troppo.
Ad aver reso però questa situazione possibile, con lo storico Niall Ferguson che ha paragonato questa classe politica a quella sovietica a inizio anni Ottanta, è stato un fenomeno tutto americano, ovvero il gerrymandering.
Ovvero la pratica di disegnare collegi elettorali su misura da parte del partito di governo nei singoli stati. In questo modo si può racchiudere in pochi distretti la maggior parte degli elettori d’opposizione.
Ad esempio, in Wisconsin il governatore repubblicano Scott Walker durante i suoi due mandati ha reso strutturale la maggioranza di deputati repubblicani, anche in caso di vittoria dem. Questo rende le elezioni meno competitive e favorisce la permanenza al potere a lungo.
Non è un caso che Mitch McConnell, in carica dal 1984, viva in uno stato molto conservatore come il Kentucky mentre Nancy Pelosi rappresenta l’iperprogressista San Francisco dal 1987. Tutti contesti dov’è difficile sfidare chi è al potere.
L’arte del compromesso
Non c’è però solo questo. Durante il quarantennio della Guerra fredda la polarizzazione politica americana si è fortemente ridotta per decenni: democratici conservatori e repubblicani moderati sono stati per lungo tempo indistinguibili e quasi sovrapponibili.
Questo ha favorito una certa efficienza della macchina di governo, che ha funzionato egregiamente anche quando la presidenza e il Congresso erano controllati da partiti diversi. Questo ha forgiato rappresentanti con la forma mentis adatta a cercare compromessi per l’approvazione di provvedimenti legislativi di capitale importanza: un esempio su tutti, le riforme sui diritti civili degli afroamericani che smantellavano il sistema di segregazione razziale in numerosi stati del Sud sono state varate dall’amministrazione del democratico Lyndon Johnson nel 1965 con la collaborazione decisiva del leader repubblicano al Senato Everett Dirksen.
Lo stesso è avvenuto dal 2021 al 2022, durante il primo biennio presidenziale di Joe Biden, grazie alla collaborazione proprio di Mitch McConnell, che ha accantonato la sua arcinota faziosità con cui ha ostacolato l’agenda di Barack Obama per otto anni riscoprendosi tessitore mentre il suo partito stava lentamente abbandonando l’eredità del neoliberismo di Ronald Reagan.
La nuova classe
Oggi la nuova classe politica invece è ben incarnata dal primo millennial in un ticket presidenziale: J.D. Vance, classe 1984. Profondamente ideologizzato, attento alle apparizioni sui media, molto occupato a curare la sua base sui social network.
Profilo che per certi aspetti si potrebbe applicare anche ad Alexandria Ocasio Cortez, che è nata nel 1989. Difficilmente due personalità così potrebbero tessere accordi senza violare le loro sbandierate convinzioni spesso proposte come “principi non negoziabili” al loro seguito sul web.
Entrambi incarnano alla perfezione le nuove leadership postrumpiane, dove conta maggiormente l’immagine di purezza contrapposta alla capacità di forgiare difficili accordi con la parte avversa
Un profilo non dissimile nemmeno a una politica più stagionata come Kamala Harris, che ha avuto una prima campagna elettorale per la presidenza molto difficile nel 2019 anche per questo motivo: troppa attenzione ai trend di Twitter. Oggi, pur avendo imparato questa e altre lezioni, ha uno stile più divisivo di Joe Biden, ma nel contempo più adatto ad affrontare le provocazioni e gli attacchi di Donald Trump rispetto all’attuale presidente.
Harris ha attaccato il tycoon accomunandolo ai criminali che ha perseguito negli anni da procuratrice, che «maltrattavano le donne» o «truffatori che imbrogliavano i consumatori». Mentre Trump, con un post sul suo social Truth, ha accusato l’amministrazione Biden-Harris «di non averlo adeguatamente protetto» in occasione dell’attentato subito in Pennsylvania. La pace delle ore dopo quell’evento sembra già essere un remoto ricordo.
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