Ha gioco facile Benjamin Netanyahu ad intestarsi, con l’ormai consueto messaggio in inglese rivolto alle genti del mondo, la caduta del regime di Assad per mano dei ribelli capitanati dall’ex membro di Al-Qaeda, nonché rappresentante del sedicente Stato islamico, Abu Mohamed al-Jolani.

Non solo perché l’aviazione israeliana ha aiutato i cosiddetti ribelli nella loro avanzata trionfale verso la capitale Damasco, ma, soprattutto, perché non sfugge a nessuno quanto questa a dir poco imprevedibile capitolazione della dinastia degli Assad, col suggello delle «dimissioni» a sancire una resa senza condizioni, sia stata possibile in virtù dell’opera di logoramento dell’anch’esso sedicente asse della resistenza iraniano messa in atto per tutto il 2024, quando lo Stato ebraico ha cominciato a mettere in atto il piano di riscrittura del Medio Oriente in reazione all’eccidio subito il sette ottobre, che, da trappola per se stesso, si è così tramutata in una trappola per il regime degli ayatollah e di tutti i suoi proxies.

Dapprima Tel Aviv è ricorsa alla strategia degli omicidi mirati, dopo anni in cui era stata archiviata dal Mossad perché ritenuta inefficace a cambiare gli scenari di lungo corso. È vero se resta fine a se stessa, ma, vista a posteriori, era solo la prima tappa di un percorso che avrebbe spostato il fronte bellico al Nord, dove il cessate il fuoco di oggi appare più come una pausa tattica.

La consueta strategia del nemico oggi sfruttata dallo Stato ebraico. Il tutto scandito dagli inquietanti botta e risposta con l’Iran e il superamento reciproco di ogni linea rossa possibile. Un indebolimento del fronte avversario, che ha stuzzicato gli appetiti dell’onnipresente Erdogan, campione mondiale del gioco su dieci tavoli. E, visti i precedenti degli anni caldi della guerra civile siriana, non pare peregrina l’idea di uno scambio di informazioni fra intelligence israeliana e turca nei giorni precedenti l’avanzata ribelle.

Del resto, si sa, il nemico del mio nemico diviene magicamente mio amico. In uno scenario che, ad oggi, lo vede vincitore su tutti i fronti, Israele deve temere alcune incognite. Anzitutto, le milizie ribelli stesse: una galassia eterogenea, raccolta attorno alla sigla di Hayat Tahrir al-Shamin, in cui si nasconde di tutto.

Visti i precedenti coi Talebani nel 2021, le professioni di democrazia e tolleranza profuse da al-Jolani in queste ore non rassicurano. Come si dice, vedere cammello.

In ogni caso, anche se il governo siriano cadesse nelle mani di estremisti fanatici appare difficile possano pensare a un attacco alle truppe israeliane, visto lo stato del proprio non-esercito. Facile ricalcherebbero, per lo meno a breve termine, l’esempio dell’Isis, che ben si guardò dallo sfiorare i confini israeliani.

C’è un limite anche alla follia jihadista. Come ricordato dallo stesso premier israeliano nel suo video, fra Tel Aviv e Damasco vigeva un accordo di separazione militare dall’indomani della Guerra di Kippur del 1973. Una sottolineatura che pare un avviso ai naviganti, accompagnato dal biglietto di auguri rappresentato da un nuovo schieramento di forze Tzahal nell’ex zona demilitarizzata.

Secondo, deve temere l’imprevedibilità del rais turco, che, ringalluzzito da una vittoria siriana, anche se resta dubbio che questo fosse l’esito desiderato, potrebbe intestarsi la causa palestinese. A maggior ragione alla luce del declino iraniano.

Sarà interessante vedere se, come si dice da tempo, lo stato maggiore di Hamas si trasferirà a Istanbul o Ankara. Per dribblare questi pericoli, Netanyahu potrebbe proporre a tutti i soggetti coinvolti nell’area la testa degli ayatollah, candidandosi a sferrare l’attacco finale a Teheran in sinergia con l’opposizione interna, anch’essa ulteriormente motivata dagli esiti siriani.

Magari scambiando la causa curda con quella palestinese, e/o il Rojava con le Alture del Golan, attraverso un più o meno tacito accordo col falso nemico Erdogan. Eventuali scenari rimandati giocoforza a dopo il 20 gennaio. Intanto, guardare verso lo Yemen, dove potrebbe risvegliarsi una sopita guerra civile che non ha mai trovato risoluzione.

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