Si vis pacem, para bellum: Se vuoi la pace, prepara(ti) (al)la guerra. Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen Mitteln: La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.

Queste sono forse le due citazioni più famose quando si vuole far bella figura parlando dei conflitti armati passati e attuali. Le due affermazioni, però, esprimono due modi diversi di vedere la guerra.

La citazione latina, attribuita a Vegezio, implica che la guerra sia volta a un fine e a una fine: la pace. Essa ha senso, quindi, solo se si ha in mente che debba finire, e finire con un preciso esito.

Per quanto, personalmente, io trovi questa esortazione ripugnante, perché non ammette altri scenari se non violenti per ottenere la fine della violenza (quasi un paradosso logico), è la citazione del generale prussiano Carl von Clausewitz ad essere ancora più problematica.

Un qualsiasi strumento (una pinza, una ruspa, uno smartphone) è più utile e ha più valore se lo si può adoperare per un numero maggiore di obiettivi. Caratterizzare la guerra come un mezzo, quindi, può condurre a valutare anche l’uso delle armi e della violenza organizzata dallo Stato in termini di quanti scopi essa può soddisfare. La pace, da obiettivo supremo, diventa uno dei tanti.

Si può, per esempio, prolungare e inasprire la violenza, ad esempio lanciando bombe atomiche o radendo al suolo città nei paesi nemici anche quando quei nemici sono di fatto già sconfitti, solo per mostrare la propria forza ad altre nazioni, magari oggi alleate ma che in futuro potrebbero diventare avverse.

Si può invadere un paese e devastarlo col napalm solo per anticipare la possibile invasione di quel paese da parte di altri. Oppure l’invasione è una forma di propaganda, per giustificare un regime dispotico che sopprime le libertà e incarcera o uccide i dissidenti con la bugia che l’invaso è una minaccia, o per distrarre l’attenzione dalle condizioni disastrose in cui i cittadini vivono.

Si può sostenere militarmente un paese aggredito con l’obiettivo dichiarato di difendere il diritto internazionale, ma se poi quel sostegno beneficia il complesso militare-industriale, offre opportunità lucrative per la ricostruzione, e indebolisce lo stato occupante rendendolo una potenza meno influente, allora magari vale la pena far durare le ostilità più a lungo possibile.

Si può crivellare di bombe una città per rispondere a un orribile attacco terroristico, o far scoppiare centinaia di vecchi cerca-persone e ricetrasmittenti accecando o uccidendo chiunque si trovi a passare nei pressi di chi li maneggia, e poi sfruttare l’occasione per realizzare altri scopi, ad esempio fare pulizia di un popolo considerato inferiore e ostile, o far dimenticare i danni e i crimini commessi in patria con una vittoria militare che riabiliti il consenso per i governanti e magari li tenga a piede libero.

Certo, nel processo restano centinaia di migliaia di morti, intere generazioni di bambini e di giovani (civili e militari) sono decimate, si disperdono sostanze letali nell’ambiente, si lasciano incustodite armi letali di cui il crimine organizzato fa bottino, resta per generazioni la distruzione fisica, morale e psicologica di interi popoli. Ed emerge l’ipocrisia di paesi che vogliono esportare i loro valori di libertà e democrazia altrove, mentre fiancheggiano autocrati e dittatori se questo serve ad aumentare la loro influenza. Ma se ci sono obiettivi più “alti”, allora questi sono solo danni collaterali. Ogni riferimento a fatti presenti e passati è del tutto intenzionale.

Il 1945

Però tra i fatti del passato e quelli del presente qualcosa è successo. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato al mondo cosa un conflitto armato può provocare con la tecnologia ora disponibile. Settantasei anni fa le Nazioni Unite proclamarono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che accoglieva finalmente il messaggio kantiano di considerare gli essere umani come fini, mai come mezzi, mai come danni collaterali. Sei paesi iniziarono in quegli stessi anni il processo di integrazione europea con un chiaro obiettivo: che non ci fosse più una guerra in Europa, che si facesse di tutto per evitarla. I costituenti italiani inclusero nella legge fondamentale dello Stato il ripudio della guerra come mezzo di risoluzioni di controversie.

Alcuni di loro avevano combattuto nella Resistenza, e come più volte ribadito dall’organizzazione che ne conserva e tramanda la memoria, l’ANPI, quello che i partigiani cercavano non era solo la sconfitta dei fascisti e dell’invasore nazista, ma la fine di tutte le guerre. Era un mondo in cui si operasse per la pace, come fine e come mezzo, e dove l’intelligenza e creatività umana servissero anche ad anticipare, con l’azione politica pacifica, il possibile insorgere di dissidi che sfociassero in violenza di Stato.

Nonostante tutti questi eventi e aspirazioni, nel nostro tempo è difficile vedere la pace come fine ultimo e urgente, e quindi non è il fine ultimo nemmeno l’essere umano e la sua vita. Le due guerre ai confini dell’“Occidente”, che rischiano di diventare permanenti, segnano il fallimento di quegli ideali, non solo per i fatti correnti, ma anche per non essere stati capaci, nei decenni passati, di pensare alle relazioni internazionali in forme che non fossero binarie. Per non aver considerato che la convivenza pacifica si costruisce non solo con la diplomazia e i vertici fra potenti, ma con una visione sociale ed economica che limiti i motivi di conflitto, con una diffusione della conoscenza, con la garanzia di condizioni di vita dignitose per tutti, con la promozione della cooperazione. 

L’Europa nuova

In questi giorni si sta formando la nuova dirigenza delle istituzioni europee. Quell’Europa unita che doveva offrire al mondo qualcosa di nuovo e diverso, ma che appare passiva e al traino di visioni binarie altrui, senza peraltro godere dei frutti dello “strumento” bellico, a differenza di altre forze in campo. Sarebbe bello pensare a una svolta in questa legislatura, a un recupero di un ruolo coerente di esempio innanzitutto morale per il resto del mondo. A una politica interna e internazionale ispirata da una versione modificata, parzialmente nella forma, ma radicalmente nella sostanza, del motto latino: Si vis pacem, para pacem. E a un risveglio della coscienza collettiva che metta i governanti di fronte alla loro inadeguatezza rispetto alla ragione principale della loro stesa esistenza. 

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