«Israele ha il diritto di difendersi e di dare la caccia ai terroristi di Hamas ma ha anche la responsabilità di evitare le vittime civili». Dobbiamo tornare alle parole pronunciate, qualche mese fa, da Kamala Harris per tentare di capire quale strategia dovremmo aspettarci dall’interventismo americano, ora che l’intelligence israeliana ha deciso per un attacco preventivo contro i miliziani di Hezbollah.

La simultanea e a dir poco scenografica esplosione di migliaia di cercapersone a Beirut, in diverse regioni del Libano e Siria (con un bilancio di 18 morti, fra cui una bambina di otto anni e oltre 4000 feriti), non rischia solo di aprire l’ennesimo vaso di pandora nell’eterno conflitto israelo-palestinese, ma di mostrare la debolezza di strategie preventive nell’uso della guerra, ampiamente sperimentate nei loro fallimenti.

Pare infatti incredibile che proprio nei giorni in cui l’Onu vota la risoluzione palestinese per chiedere la fine l’occupazione da parte di Israele, si torni a parlare di “war on terror”, di lotta preventiva al terrorismo islamico e di “stati canaglia”, nemmeno fossimo ai tempi dell’utilizzo delle basi del Golfo contro il regime di Saddam Hussein.

Senza contare che la credibilità del governo di Benjamin Netanyahu è ormai andata completamente in frantumi, vista la sua incapacità nel garantire la sicurezza dei cittadini e l’apertura di nuovi fronti di guerra, che non riporta a casa gli ostaggi del 7 ottobre e manda al massacro un numero di militari sempre più elevato. Intanto nel mondo i sentimenti anti-israeliani divampano, mentre gli Stati Uniti faticano a uscire dal loro unilateralismo, questo sì retaggio storico della fine della guerra fredda, ancora convinti che un nuovo ordine mondiale si possa costruire con il solo ricorso agli eserciti.

La presunzione di poter vincere rapidamente un conflitto, in virtù della superiorità militare, aveva già provocato disastri in Afghanistan: l’insediamento di un regime fragile, corrotto, delegittimato e incapace di garantire condizioni minime di sicurezza, aveva chiaramente mostrato quanto un regime change non si potesse fondare solo sull’interventismo militare. E che esportare la democrazia a suon di guerre preventive non paga molto.

Il ritorno della nazione in uniforme

Del resto era stato proprio Israele a rimettere in discussione la centralità dell’esercito nel creare il bene comune: la crescita economica degli anni Settanta (dovuta non poco allo sfruttamento dei territori occupati), la globalizzazione del mercato e nuove fonti di benessere (oltre all’agricoltura) sembravano aver mandato in soffitta l’idea della “nazione in uniforme”, in cui la formazione paramilitare era prevista persino alla radio o nelle scuole.

Anziché rafforzare la solidarietà nazionale, la prima guerra in Libano (1982) con i suoi millecinquecento caduti e la prima Intifada (1987-1993), avevano scatenato una vera e propria “crisi di motivazione”, soprattutto all’interno della classe media occidentale e laica, da cui provengono tuttora le élite militari.

Peccato che dagli anni Ottanta, l’opinione pubblica si sia divisa in due movimenti extraparlamentari nati nella classe media, ashkenazita in maggioranza, che abita nelle grandi città o nei diversi insediamenti agricoli (come il kibbutz e il moshav ). Shalom Akhshav (Peace Now) e Gush Emunim (“il blocco della fede”) sono da sempre in polemica con uno stato che esita fin troppo a definire i propri confini, che non si ritira dai territori occupati ma nemmeno li annette (tranne Gerusalemme Est e le alture del Golan).

E molto radicata è ancora la convinzione che sia “l’esercito di popolo” a dover sorvegliare i palestinesi nei territori occupati, in modo da garantire la sicurezza nazionale. Come se le funzioni strategiche di difesa dallo jihadismo o da Hamas non passassero da mezzi tecnologici sofisticati ma fossero ancora nelle mani di truppe di occupazione di terra, in perfetto stile Novecento.

L’occasione americana

Gli Stati Uniti ora hanno una grande occasione: smetterla di presentarsi come i vincitori della guerra fredda e come l’unica nazionale indispensabile al mantenimento della pace. L’America interviene da sempre in un gran numero di conflitti, in nome delle ragioni umanitarie e della lotta al terrorismo internazionale. Ma ha finito col rimaner vittima dei processi di frammentazione che da decenni caratterizzano il sistema internazionale.

Intanto nelle università americane divampano le manifestazioni filopalestinesi, con tanto di occupazioni di aule, sit-in e arresti di studenti che chiedono di interrompere investimenti e collaborazioni con aziende o università israeliane, come ritorsione per il disastro umanitario nella guerra di Gaza.

Qualcuno ha paragonato gli scontri con la polizia alla Columbia University con le proteste studentesche ai tempi della guerra in Vietnam. “La guerra sporca”, quella persa, quella sbagliata che aveva sacrificato una generazione intera di giovani, gettati di colpo in un conflitto atroce che li aveva tramutati in reduci da sindrome post-traumatica da stress.

Occorre ora il coraggio di una discontinuità, un cambiamento che vada oltre l’abuso dei privilegi di arbitrio. Forse da qui potrà passare quel recupero di credibilità degli Usa come garanti ultimi dell’equilibrio e della stabilità mondiale.

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