- Dietro un titolo promettente, “Proteggere, prevenire, formare”, ci sono 40 paginette che rivelano soltanto due cose: la volontà di coprire e minimizzare il problema, e una certa ignoranza statistica (nel migliore dei casi, nel peggiore un grossolano tentativo di manipolare i pochi numeri offerti).
- Basta vedere i numeri. Ci sono 226 diocesi in Italia. L’analisi del report ne riguarda 166, ma a rispondere sono state 158. Perché? Quali sono rimaste fuori? Non si sa. E se fossero rimaste fuori quelle con il maggior numero di casi di molestie?
- Alla fine, l’unica cosa interessante è la tabella 3.14 che riguarda le “azioni di accompagnamento alle presunte vittime”. Riguarda soltanto 57 casi, ma registriamo comunque i dati: soltanto 3 casi su 57 rientrano nella categoria “altro”, quella che include, tra le azioni offerte alle vittime, la denuncia penale
FOTOIl cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei
Il cardinale Matteo Maria Zuppi, oggi a capo della Conferenza episcopale italiana, è una persona seria. E dunque non avrebbe mai dovuto permettere la pubblicazione di un report umiliante come quello diffuso oggi sugli abusi nella Chiesa. Che rappresenta una umiliazione per tutte le vittime, ma anche per l’intelligenza di qualunque persona si avventuri a leggerlo.
Dietro un titolo promettente, “Proteggere, prevenire, formare”, ci sono 40 paginette che rivelano soltanto due cose: la volontà di coprire e minimizzare il problema, e una certa ignoranza statistica (nel migliore dei casi, nel peggiore un grossolano tentativo di manipolare i pochi numeri offerti).
Intanto il report è soltanto orientato a misurare l’efficacia dei servizi diocesani per la tutela dei minori e di quelli regionali.
Già qui c’è la prima falla logica: se non c’è alcuna indagine o analisi della gravità del fenomeno degli abusi, delle molestie e della pedofilia, come si fa a stabilire l’efficacia della prevenzione?
Se ai centri, per ipotesi, vengono denunciati 1000 casi su 1500 possiamo stabilire che sono efficaci, se sono 1000 su 100.000 invece concluderemo che sono un disastro. Ma se abbiamo soltanto l’informazione che ci sono 1000 casi, cosa possiamo inferirne? Niente.
Ed è questo lo scopo del report della Cei: far arenare il dibattito, spingerlo in un angolo burocratico che genera soltanto impotenza e frustrazione.
I (pochi) numeri
Basta vedere i numeri. Ci sono 226 diocesi in Italia. L’analisi del report ne riguarda 166, ma a rispondere sono state 158. Perché? Quali sono rimaste fuori? Non si sa. E se fossero rimaste fuori quelle con il maggior numero di casi di molestie?
Non lo sappiamo, perché tutte le tabelle sono costruite per offrirci soltanto le informazioni irrilevanti. Ci viene detto quante diocesi grandi ci sono nel campione (46 su 166), ma non quali sono e quante diocesi grandi ci sono in rapporto al numero completo di diocesi grandi (una indagine che includesse tutte le diocesi grandi tranne, per ipotesi, Milano o Roma che senso avrebbe?).
Bisogna arrivare a pagina 27 per trovare qualcosa di connesso alle molestie, dopo pagine e pagine di informazioni irrilevanti sul profilo degli operatori e le attività svolte. Sono i dati sui 90 centri di ascolto attivati dai servizi diocesani o interdiocesani per la tutela dei minori: tutti abbastanza recenti, 21 sono attivi dal 2019, 30 dal 202, 29 dal 2021 e 10 dal 2022.
Quindi, per definizione, non possono essere l’osservatorio da cui misurare la gravità del fenomeno degli abusi nella chiesa, visto che nel migliore dei casi possono avere una visione molto parziale su vicende che si sono consumate negli ultimi tre anni o addirittura negli ultimi tre mesi.
Nel report della Cei, l’unico ordine di grandezza del fenomeno pedofilia nella Chiesa italiana è riassunto nel numero di 86 (86!) contatti tra 2020 e 2021 presso i centri diocesani. E il numero delle “presunte vittime” pari a 89.
Nel suo linguaggio burocratico, la Cei ci rassicura che non ci sono state vittime tra 0 e 5 anni segnalate (forse perché praticamente non parlano ancora?), ma che la quota maggiore è tra i 10 e i 14 anni, 31, 5 per cento.
Una apposita tabellina poi serve ad allontanare ulteriormente l’idea che il problema sia nel clero: la maggioranza dei (pochi) casi denunciati riguardano chierici e laici, i religiosi sono in netta minoranza (22,1 per cento).
Ora, quando il campione è così insignificante, la rilevanza statistica è zero. Ma la Cei cerca comunque di trarne l’inferenza che il problema della pedofilia e degli abusi è semmai nella società. Anzi, i religiosi ne escono quasi come una categoria virtuosa.
Niente denunce
Alla fine, l’unica cosa interessante è la tabella 3.14 che riguarda le “azioni di accompagnamento alle presunte vittime”. Riguarda soltanto 57 casi, ma registriamo comunque i dati: soltanto 3 casi su 57 rientrano nella categoria “altro”, quella che include, tra le azioni offerte alle vittime, la denuncia penale (ma anche la consulenza psicopedagogica, “attività di ascolto” ecc.).
In tutti gli altri casi i centri di ascolto diocesani provano, per essere chiari, a lavare i panni sporchi in casa e a trattare le molestie come un fatto spirituale, un tema da risolvere con la confessione e qualche Avemaria: “incontri con l’ordinario”, “accompagnamento spirituale”, “accompagnamento psicoterapeutico”, “informazioni e aggiornamento circa l’iter della pratica”.
Non c’è una parola per le vittime, non c’è un’apertura alla comprensione, non c’è un’ammissione dell’imbarazzante incompletezza della diagnosi. Zero assoluto.
Il report che doveva segnare l’inizio della presa di coscienza da parte della Chiesa italiana del problema pedofilia e la proposta di soluzioni è soltanto una rivendicazione di impunità. Da monsignor Zuppi era lecito aspettarsi qualcosa di più.
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