- Giorgia Meloni che ha scelto una proficua strategia del silenzio. Delle idee della probabile futura presidente del Consiglio si conosce molto poco.
- Non è chiaro cosa pensi del futuro dell’Unione europea, non conosciamo le sue idee sulla scuola, sull’università, sul mercato del lavoro, sulla pubblica amministrazione, sul rapporto stato-regioni, sulle infrastrutture.
- L’attenzione dei cittadini si è fatta più compressa, si concentra intensamente su pochi problemi. La sfida della politica presente, dunque, è far visualizzare pochi decisivi problemi all’elettore, senza allargare troppo le maglie del ragionamento politico.
Si può fare una campagna elettorale senza dire quasi nulla? Sì, si può e probabilmente porterà alla vittoria. È il curioso caso di Giorgia Meloni che ha scelto una proficua strategia del silenzio, volta a smussare ogni angolo problematico per gli elettori e per l’establishment.
Delle idee della probabile futura presidente del Consiglio si conosce molto poco. Non è chiaro cosa pensi del futuro dell’Unione europea, non conosciamo le sue idee sulla scuola, sull’università, sul mercato del lavoro, sulla pubblica amministrazione, sul rapporto stato-regioni, sulle infrastrutture. Sono temi cruciali nella pratica effettiva del governo, eppure non esistono nelle dichiarazioni e nei programmi elettorali di chi si appresta alla vittoria.
L’ultimo decennio ci ha mostrato una sorta di “sdoppiamento” tra la politica mediatica e quella governativa. Ci sono figure politiche dedite soltanto alla propaganda, alla definizione dell’agenda politica, che affrontano uno o massimo due argomenti per volta. È il caso di Beppe Grillo e di Matteo Salvini. E ci sono poi personalità di governo, si pensi a Lorenzo Guerini o a Giancarlo Giorgetti, che lavorano in silenzio, dediti ai dossier e all’amministrazione del potere.
A volte tentare di tenere insieme la hubris mediatica e la gestione degli affari governativi ha segnato in negativo le leadership politiche più forti, come quelle di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Non è un caso che a cicli di iper-mediaticità del primo ministro siano poi succedete figure più tecniche o meno visibili come rispettivamente Mario Monti, Paolo Gentiloni e Mario Draghi. Più in generale, l’ultimo decennio ha mostrato una oscillazione tra momenti di prevalenza della tecnocrazia e di raffreddamento del dibattito politico e momenti di demagogia e sovraesposizione mediatica.
Pochi temi chiari
C’è una teoria di scienza politica che spiega questa estrema razionalizzazione delle tematiche elettorali e questa sorta di sdoppiamento tra politica e amministrazione. Lorenzo De Sio, uno dei più importanti politologi italiani, ha costruito la Issue Yield Theory, un paradigma che aiuta a illustrare il successo dei partiti populisti e sovranisti degli ultimi anni rispetto alle formazioni tradizionali.
In particolare, ciò che questa teoria illustra è che i nuovi attori della politica del Ventunesimo secolo hanno successo semplicemente perché, a differenza dei vecchi partiti mainstream, rinunciano a sviluppare sistemi ideologici ampi, ma si focalizzano su un numero relativamente ristretto di temi ed evitano con cura di prendere posizione su altre questioni che potrebbero alienare la simpatia di molti elettori potenziali.
Questa strategia deriva dalle trasformazioni di lungo periodo della democrazia: la fine dell’organizzazione territoriale dei partiti, la rarefazione ideologica della sfera pubblica, la pervasività dei nuovi media, una personalizzazione crescente dell’offerta politica e quindi una minore fedeltà dell’elettore al simbolo.
L’attenzione dei cittadini si è fatta più compressa, si concentra intensamente su pochi problemi. La sfida della politica presente, dunque, è far visualizzare pochi decisivi problemi all’elettore, senza allargare troppo le maglie del ragionamento politico.
Lo “sdoppiamento”
Altro elemento rilevante e peculiare di questa campagna elettorale è che lo “sdoppiamento” oramai ha invaso anche la competizione partitica: mentre ci si focalizza sui temi identitari per il “popolo” da un lato, dall’altro ogni leader segue la propria regia per presentarsi come credibile agli occhi dei mercati finanziari, delle cancellerie diplomatiche, delle tecnocrazie sovranazionali.
I punti di rottura sono quindi due. Da una parte c’è la strategia di poche e sicure questioni identitarie da propagandare, dall’altra la necessità impellente di legittimarsi all’esterno in un contesto internazionale sempre più influente sulle questioni interne.
Da questo punto di vista la politica italiana è un laboratorio eccezionale perché la debolezza del paese sul piano finanziario impone che le forze politiche si rapportino con i poteri esterni, ma al tempo stesso il rigetto dei vincoli esterni ha fatto del nostro paese l’avanguardia del populismo e del sovranismo.
Oggi, però, siamo entrati in una nuova fase: più che nella contrapposizione tra interno ed esterno, che può creare molti problemi quando le forze anti establishment arrivano al governo, i partiti italiani sembrano puntare sulla compenetrazione tra i due, proprio attraverso lo sdoppiamento.
In altre parole, soprattutto per la destra che ha prospettiva di governo, tutto il gioco politico si svolge intorno al tentativo di riconciliare il mandato politico del voto, dove il successo si ottiene con il massimo razionamento degli argomenti, con il vincolo esterno, che impone di compiere scelte e riforme adeguate al contesto europeo e internazionale. Nei prossimi anni capiremo se lo sdoppiamento funzionerà o se sarà soltanto l’ennesimo gioco di specchi della politica italiana.
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