- Il libro di Goffredo Bettini ha il fascino di un’autobiografia sentimentale che mostra come la passione politica, non il potere, possa contribuire a un’esistenza più bella e piena.
- Ma il libro ha anche un valore per la ricerca storica: è il primo bilancio del triennio 2019-2022, una stagione cruciale per l’Italia e il mondo, fatto da uno dei suoi protagonisti.
- Nell’insieme l’autore disegna un quadro coerente sulle vicende di questi anni. Traccia una linea alternativa alla narrazione che va per la maggiore e mostra come la politica italiana poteva prendere una strada diversa.
Una vita «sabrosa»: saporita, piena. Gustosa. Può la passione politica riempire l’esistenza, darle significato e bellezza? Il libro di Goffredo Bettini (A sinistra da capo) trasmette questa sensazione, la stessa che si può provare leggendo l’autobiografia di Marco Pannella (Una libertà felice), la stessa che ha unito come un filo rosso, al di là delle differenze di idee, tutto il Novecento, e per la verità già l’Ottocento, dopo che la Rivoluzione francese liberò i grandi ideali dell’umanità: Mazzini e Garibaldi, quindi i leader socialisti e comunisti, ma anche liberali e radicali, figure del cattolicesimo democratico come Luigi Sturzo.
Le riflessioni sulle radici e l’orizzonte della sinistra, cioè sulla lotta per l’emancipazione degli oppressi che attraversa la storia umana, si intrecciano con le pagine autobiografiche, personali e politiche a un tempo, e muovono, anche grazie a uno stile semplice e colto, il lettore a questa stessa passione.
Ma poi nel libro di Bettini c’è dell’altro. La narrazione che tiene insieme i due filoni sfocia, nella seconda parte, in un diario politico degli ultimi anni. Qui il libro acquista anche il valore di un documento utile alla riflessione storica (come capita, ad esempio, anche con alcuni libri di Matteo Renzi, perché ugualmente autobiografici e «rivelatori»; non con quelli di Carlo Calenda).
Costituisce in effetti il primo bilancio di un triennio cruciale, dal 2019 al 2022, che ha visto il passaggio dal Conte I al Conte II (cioè da uno dei governi più di destra a uno di quelli più di sinistra, peraltro guidati dalla stessa persona), quindi l’unità nazionale con Draghi, infine la larga affermazione delle destre, la maggiore nella storia repubblicana in termini di seggi; durante tutto questo, due eventi a livello mondiale colossali e tragici, imprevisti, in stretta successione, la pandemia e la guerra.
Il bilancio di Conte
Il discorso si articola in cinque punti essenziali. Primo, il governo Conte II, trovatosi a gestire un’emergenza del tutto inedita e sconvolgente (l’Italia fu anche il primo, fra i paesi democratici, a essere colpito dalla pandemia), pur non essendo certo esente da critiche, si è mostrato all’altezza della situazione: nell’affrontare il dramma sanitario; nel garantire già con le prime misure economiche la tenuta economica, e sociale, del paese; non da ultimo in Europa, dove l’azione di Conte, ben supportata dalle figure chiave del Partito democratico, è stata fondamentale per conquistare il Recovery Fund (con i primi eurobond, che a quel tempo anche in Italia molti non credevano possibili).
A dirla tutta, già a partire dall’estate del 2020 l’operato di Conte è parso meno soddisfacente, sia per il modo in cui stava programmando il Recovery, sia per la sottovalutazione della seconda ondata del Covid. Ma il dato storico rimane, in un contesto così drammatico e carico di incognite, nel mondo intero.
Sono meriti della stagione giallo-rossa che peraltro molti cittadini sembrano aver compreso bene, più di tanti politici o opinionisti.
Da notare infatti che il governo Draghi non ha cambiato l’impostazione di fondo del governo giallo-rosso, né sulla pandemia, né sul Recovery.
Romanizzare i barbari
Bettini mette poi un altro punto fermo. Il Partito Democratico stava riuscendo, tutto sommato, a «romanizzare i barbari» (mi si passi l’espressione): cioè a portare i Cinque stelle su un terreno pienamente europeista, e progressista, del tutto compatibile con una cornice liberal-democratica. Non è vero, insomma, che il Pd fosse succube dei Cinque stelle.
Semmai vale il contrario: per tutto il tempo in cui Pd e Cinque stelle sono stati alleati, pure al netto della grande popolarità di Conte (ben maggiore di quella di Zingaretti, o di Letta), il Pd è salito nei sondaggi e i Cinque stelle sono scesi.
In quegli anni il Pd è tornato a vincere, da solo o alleato con loro (ma in coalizioni in cui era la forza largamente egemone), diverse tornate amministrative; dopo un lungo periodo, iniziato con la segreteria Renzi, in cui il Pd aveva perso quasi sempre.
Alla fine di quella stagione, cioè nel luglio 2022, alla caduta del governo Draghi, il Pd era arrivato ad avere, nei sondaggi, il doppio dei voti dei Cinque stelle.
Oggi, dopo che le due forze si sono divise, i Cinque stelle hanno non solo ampiamente recuperato (nelle urne), ma addirittura superano di nuovo il Pd nei sondaggi.
La storia di un Pd «donatore di sangue» verso i Cinque stelle è quindi sostanzialmente falsa, tantopiù dati i rapporti di forza in Parlamento. Fatte salve alcune eccezioni, su tutte quella non piccola del taglio dei parlamentari.
L’eccezione Draghi
La terza tesi riguarda Draghi. Primo, a un certo punto fu la possibilità che ci fosse lui a fare naufragare le trattative per il Conte III, su cui sembrava che si dovesse andare a fine 2020.
Vero, ma aggiungo: lo si poteva immaginare. A ogni modo, e qui Bettini ha molte ragioni, il governo Draghi doveva essere un’eccezione, a tempo.
Era questo, in effetti, il mandato con cui Draghi era stato chiamato dal Colle, il 2 febbraio 2021: gestire la pandemia e mettere in salvo il Pnrr.
Obiettivi che lo stesso Draghi peraltro, a dicembre 2021, ritenne centrati. Perché allora alcuni, anche nel Pd, vollero trasformare quella che era un’eccezione in un programma politico di lunga durata?
Azzopparono così la legittima (e giusta) aspirazione di Draghi a diventare Capo dello Stato, mentre imbrigliarono il confronto democratico in un governo di unità nazionale, per sua natura incapace di fare scelte incisive, che alla fine servì solo a gonfiare le vele dell’estrema destra.
Va detto che a quest’esito contribuirono, subito dopo l’insediamento di Draghi, le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Pd.
È il quarto punto di Bettini, considerato all’epoca il suo principale consigliere: Zingaretti aveva ancora tutta la forza politica, e l’autorevolezza, per affrontare i problemi creatisi dentro il partito: le leve erano nelle sue mani. Forse, poi, se fosse rimasto lui la rottura con i Cinque stelle non sarebbe diventata irreversibile.
Divisi si perde
Veniamo quindi all’ultimo punto, il più attuale. Dopo la caduta del governo Draghi, con i Cinque stelle bisognava recuperare in qualche modo. Se non vi si riuscì, le responsabilità sono di entrambi, anche del Pd. Del resto, che divisi si andasse incontro a sconfitta certa era evidente.
Lo scrissero molti, anche su questo giornale, in quei giorni, fra cui Curzio Maltese, Nadia Urbinati, Vincenzo Visco. Il 26 luglio, qui proposi un’alleanza tecnica contro le destre, «modello Cnl», che avesse come unico discrimine l’europeismo e la condanna di Vladimir Putin (una cornice in cui sarebbero potuti rientrare anche i Cinque stelle di Conte).
Sennonché, quello stesso giorno, la direzione nazionale del Pd ha approvato – all’unanimità – la relazione del segretario Enrico Letta, che chiudeva la porta definitivamente a Conte.
Dopo però che anche Carlo Calenda ha rotto l’alleanza con il Pd, il 7 agosto, e che una coalizione incentrata sull’agenda Draghi (posto che fosse una buona idea) non è più stata nella realtà (il principale alleato rimasto al Pd, la lista SI-Verdi, era sempre stato all’opposizione del governo), spazio politico per tentare una ricomposizione con Conte forse c’era ancora.
Bettini rivendica di essere stato fra i pochissimi dirigenti di peso, assieme a Andrea Orlando, a insistere con Letta per una ricomposizione (in privato, come andava fatto visto che si era già in campagna elettorale). Alla fine però quella strada, comunque non semplice, non fu nemmeno tentata.
Uniti, questi cinque punti di Bettini disegnano un quadro coerente, e condivisibile, per capire le vicende di questi anni. Tracciano con nettezza una linea alternativa alla narrazione che va per la maggiore e fanno capire che le cose potevano prendere una strada ben diversa, forse per il bene del paese. È anche per questo che il suo libro suscita tanto interesse.
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