Il bilanciamento tra poteri è talmente denso che sebbene il presidente sia il “comandante in capo”, non può, secondo la Costituzione, decidere unilateralmente di entrare in guerra
The first new nation, la prima nuova nazione, così Seymour Martin Lipset descrisse l’esperienza politico-costituzionale statunitense. Per la prima volta al mondo il capo dello Stato, e del governo, veniva selezionato (in)direttamente dal corpo elettorale. Non un monarca per derivazione divina, legami familiari (si veda il recente bel numero di MicroMega sulle dinastie americane) o tradizione, prassi formalizzata da riti di corte, né un dittatore, despota incontrollato dei destini altrui.
Del resto, i padri fondatori erano letteralmente ossessionati dall’evitare che si ripetesse nella terra promessa lo strapotere della corte che talvolta straripava nel sopruso. Gli stessi Padri pellegrini sulla Mayflower fuggivano nel 1620 dalle angherie politiche e religiose perpetrate dalla corona e dal porporato.
E la Guerra di secessione sancì la volontà di sganciarsi dal giogo politico e burocratico del re Giorgio III, prima che dalla sua “pazzia”.
Nessuna concentrazione di potere, ma decentramento dello stesso e centralità dell’individuo, pur in un diverso contesto in cui il nuovo capo del governo sarebbe stato investito popolarmente. Tuttavia, et pour cause, la parola “presidenza” non si trova nella Costituzione americana. Il termine era utilizzato solo per designare chi presiedeva i consessi assembleari, guidandone i lavori, coordinando ed eseguendo quanto deciso dalle Assemblee, secondo l’etimologia latina del praesidere.
Dunque, nell’estate del 1787, a quattro anni di distanza dalla pace con l’ex madrepatria dell’Impero britannico, si riunì a Filadelfia l’Assemblea costituente, che non discusse della “presidenza” in quanto istituzione, ma soltanto del potere esecutivo e con esso del suo solo titolare: il “presidente degli Stati Uniti”.
Il lemma e il concetto di “presidenza” saranno utilizzati solo successivamente, quando verrà istituzionalizzato il Dipartimento esecutivo del governo. In quel contesto era dunque più urgente limitare, contenere, bilanciare, equilibrare i poteri.
Per James Madison, come scrisse nel Federalist n. 51, «ambition must be made to counteract ambition», affinché il Congresso, la presidenza e le Corti potessero contrastare i potenziali tentativi di aggressione o di invasione delle legittime fonti di potere o delle strutture di potere delle istituzioni concorrenti.
A ciascuna istituzione sarebbe stato dato un “controllo” sulle altre in modo da bilanciare l’insieme delle basi di potere date a ciascuna dalla Costituzione, senza che tuttavia un’istituzione dipendesse interamente dall’altra.
Evitare un nuovo monarca
Il compromesso raggiunto sulla figura presidenziale diede vita a una nuova istituzione che era «adeguatamente energica ma tranquillamente repubblicana» sebbene vi fosse una chiara consapevolezza comune a tutti i delegati, come efficacemente sintetizzò Benjamin Franklin, il più anziano di loro alla Convenzione, che «il primo uomo messo alla guida sarà buono, ma nessuno sa che tipo potrà venire dopo».
Prevalse la scelta per un modello sperimentale, aperto a diverse interpretazioni ed evoluzioni nel tempo, in cui il testo della Costituzione (articolo i, sezione 7) disegna un esecutivo abbastanza forte, ma non così tanto da diventare dispotico. Un’ambiguità condivisa dal popolo americano «il cui odio per la monarchia esisteva accanto al desiderio di fare di George Washington un nuovo monarca».
Una rete fitta in cui è esercitato un controllo continuo e un bilanciamento anche tra istituzioni dello stesso potere: è il caso del bicameralismo.
Le leggi devono essere approvate alla Camera e al Senato in forma identica.
Inoltre, il Senato può confermare o respingere le nomine del presidente (ad esempio i giudici della Corte Suprema) e il Congresso controlla in larga misura il bilancio federale, avendo quindi una presa reale sulle attività del presidente; la Camera dei rappresentanti può imputare il presidente e il Senato funge da tribunale incaricato di decidere (con voto a maggioranza dei due terzi) se è colpevole e se debba essere rimosso dall’incarico, nella procedura di “impeachment” (si pensi al caso rilevante di Trump nel 2021, in cui sette senatori repubblicani votarono contro il proprio candidato).
Il bilanciamento tra poteri è talmente denso che sebbene il presidente sia il “comandante in capo”, non può, secondo la Costituzione, decidere unilateralmente di entrare in guerra, sebbene sia possibile riscontrare nella storia politica americana una certa elasticità della separazione dei poteri.
Alla parte istituzionale bisogna poi aggiungere l’elemento politico e in particolare il rapporto tra presidente e partito.
Sebbene quest’ultimo non possa sfiduciare il presidente una volta eletto, questi in ogni caso da capo del governo dovrà negoziare con il partito nel Congresso al fine di far “passare” le sue proposte di legge.
Il candidato prescelto può non seguire l’agenda definita con il partito e/o potrebbe esserci un presidente con caratteristiche politiche “differenti” da quelle auspicate (il caso di Trump con l’ostilità di una cospicua fetta dell’Elefante o l’invito dell’establishment democratico alla rinuncia alla candidatura di Biden nel 2024 ne sono una prova). Infatti, il presidente non detiene il potere di iniziativa legislativa, ma può soltanto esercitare un’azione ostativa (veto) nei confronti del parlamento ovvero può emanare degli “ordini esecutivi” che però necessitano di una legislazione delegata proprio del Congresso.
Nessun potere assoluto
Dunque, nessun uomo o donna sola al comando, nessuna hollywodiana valigetta con codici e un pulsante rosso per detonare l’arma atomica, nessun politico “più forte al mondo”, ma una rete, fitta, di istituzioni, controlli, bilanciamenti.
L’abbandono della monarchia dell’impero britannico e la costruzione di una nuova figura che condensasse l’intero potere esecutivo non collimano però con le previsioni costituzionali, in cui le attribuzioni presidenziali sono definite in forma generale, quasi generica.
Un po' perché come detto non era chiara l’idea di presidenza, ma anche e soprattutto per lasciare aperto lo spazio di aggiustamenti progressivi.
Espressioni ampie che definiscono i poteri e i doveri del presidente, facendo dire al giurista e politologo, poi presidente, Woodrow Wilson che il presidente è in una posizione in cui «egli ha il dovere, in diritto e in coscienza, di essere il più grande uomo possibile», comportandosi nel modo migliore che la sua capacità gli consente. Norme, ma soprattutto politica derivante dall’equilibrio istituzionale e costituzionale, ma soprattutto politico, se pensiamo ad esempio che il governo diviso dagli anni Sessanta è stato sostanzialmente la regola e ha imbrigliato molto l’agire presidenziale. Dunque, indicare il presidente degli Stati Uniti d’America quale politico più potente al mondo è una interpretazione erronea, smentita dall’analisi e dalla conoscenza complessiva dell’articolato sistema costituzionale, istituzionale e politico. Il capo dello stato è certamente importante, ha molti poteri, ma deve confrontarsi con altre istituzioni, con il suo partito e con la campagna elettorale permanente. Ora, alla luce di quanto succede negli Stati Uniti, immaginiamo l’assalto a Capitol Hill del 2021 in un sistema senza “pesi e contrappesi”, in cui si procede all’elezione popolare diretta del “premier” (un sistema che non esiste al mondo!).
© Riproduzione riservata