- Meloni gode di ampio credito presso le classi dirigenti e l’elettorato liberale. Lei ricambia, proponendo la stabilità dei conti e l’orientamento atlantista.
- Accadde, in un contesto diverso, già cento anni fa, con il fascismo. Sarà poi una costante dell’impostazione neo-liberale, che pur di contrastare la social-democrazia accettò di accantonare le libertà civili e politiche.
- Oggi, i nostri liberali puntano sulla Meloni come antidoto alle politiche di redistribuzione che un governo progressista avrebbe forse messo in campo. Rischiamo di ritrovarci con meno diritti sociali e meno diritti civili.
Cento anni fa il fascismo prendeva il potere in Italia. Poté vincere per la divisioni degli avversari, l’aiuto della monarchia, la complicità di larghi pezzi dello Stato, a partire da magistratura e forze dell’ordine.
Cento anni dopo, l’estrema destra torna al potere in Italia. Ma, a parte una residua affinità politico-ideale mai del tutto recisa, e nemmeno tanto nascosta (la fiamma), quella di oggi è un’altra cosa. Fratelli d’Italia vince in libere elezioni, non si afferma con la violenza e non prende il potere con un colpo di stato.
Anche sul piano dei simboli, Giorgia Meloni è molto lontana dall’icona virile di Mussolini. Oggi come allora, però, l’estrema destra vince pur essendo minoranza nel paese, grazie alle divisioni degli avversari.
Collegato a questo, vi è un altro aspetto in comune: l’ampia apertura di credito concessa dalle classi dirigenti e dall’elettorato liberale.
Cento anni fa, aprire ai fascisti fu un errore mortale, che agevolò Mussolini e da cui i liberali del tempo non si ripresero più.
Oggi sembra ripetersi uno schema simile: la benevolenza che circonda Giorgia Meloni precede la sua vittoria elettorale, ne è stata anzi all’origine.
A lei si sono perdonate posizioni, sull’Europa e i migranti, su Draghi, ben più estreme di quelle di Salvini, per non dire di Conte; e alleanze in Europa ancor più imbarazzanti. Meloni ricambia, promettendo la stabilità dei conti e l’allineamento atlantista.
Anche qui, a ben vedere c’è un’assonanza con cento anni fa: le prime politiche economiche del fascismo furono in continuità con quelle liberali (ministro delle Finanze Alberto De’ Stefani); la politica estera rimarrà in linea con Francia e Inghilterra ancora a lungo.
Poi il regime prese tutt’altra piega e a quel punto le classi dirigenti liberali erano ridotte all’impotenza.
Non sono solo posizionamenti di comodo. Dietro vi è un’affinità più profonda. Già un secolo fa, il padre nobile del neo-liberalismo, Mises, apprezzava Mussolini e in Austria collaborava con il suo omologo Dolfuss.
Il principale allievo di Mises, Hayek, avrà poi modo di lodare Pinochet. Il nemico dei pensatori neo-liberali era la social-democrazia, cioè il welfare state e l’intervento pubblico.
Per contrastarli, erano disposti anche a rinunciare alle libertà civili e politiche: lo teorizzavano apertamente.
Oggi in Italia, nel pieno di una crisi drammatica, i nostri liberali puntano sulla Meloni come antidoto alle politiche di redistribuzione, che un governo progressista avrebbe forse messo in campo. E pazienza per i diritti civili e forse anche per la democrazia liberale.
Rischiamo così di ritrovarci, fra non molto, più diseguali e anche meno liberi (e forse anche più poveri, date le peculiarità del nostro modello di sviluppo). È una visione suicida, come la storia insegna.
© Riproduzione riservata