Ad ascoltare le voci che affollano il dibattito pubblico, si ha spesso l’impressione che l’implementazione immediata di singoli provvedimenti risolverebbe di colpo tutti i nostri problemi. La settimana scorsa pareva che l’attuazione del Pnrr fosse la svolta decisiva nella vita di 60 milioni di italiani; in questa probabilmente discuteremo se l’elezione diretta del premier ci riporterà all’età dell’oro. La prossima chissà: forse il nuovo patto di stabilità tornerà ad essere determinante per la salvezza nazionale.

Non che sia sbagliato concentrarsi su obbiettivi chiari e circoscritti nel tempo e nello spazio: l’intero pianeta sembra seguire lo stesso principio. Pandemia, cambiamento climatico, guerre… i titoli dei giornali dettano la cadenza di emergenze molto complesse da risolvere, ma che hanno in comune una cosa: sono obiettivi finiti e definiti. La loro soluzione è qualcosa che possiamo concretamente immaginare quanto auspicare, si tratta “solo” di investire la giusta dose di competenze e risorse.

Certo, in Italia più che un manager o un premier, ci vorrebbe un mago per realizzare tutti i progetti del Pnrr, ma il punto qui è un altro: immaginiamo che, grazie alla bacchetta magica, questi piani giungano ad una fine, cosa ci potremmo aspettare dopo se non un'altra sequenza di necessità imprescindibili? Siamo certi che correre da una conclusione all’altra sia proprio quello che vogliamo per noi e per la collettività?

Immaginazione necessaria

Dal punto di vista dei nostri bisogni di cittadini la risposta probabilmente è “sì”. È compito della politica trovare il modo di costruire il benessere della nostra società, affrontando quotidianamente le problematiche connesse alla sua evoluzione.

Non diversamente, ognuno di noi si chiede cosa mettere nel piatto ogni giorno ed è ancora più felice quando ha garantito il menù per la settimana o per il mese seguente. Ma, accanto alla “politica del fare” portata avanti dall’arte del governo, è bene che esista anche la “politica dell’immaginare”, con il compito di focalizzare, insieme alla concretezza del presente, anche un’altra prospettiva: quella di un futuro. Anzi, meglio se un futuro talmente lontano da risultare irraggiungibile. In altre parole, una politica concepita come “l’arte dell’impossibile”.

Certo, è una visione che appare anacronistica e forse anche provocatoria in un’epoca che insegue il populismo delle soluzioni immediate, ma la storia è ricca di conquiste ottenute da popoli che si sono posti aspirazioni al di là della logica. Quanto era probabile all’inizio del XIX secolo l’unificazione italiana? O che 75 anni fa identità totalmente diverse riuscissero a dare vita al sogno di una Costituzione? Per quanto l’Unione europea o le Nazioni unite siano realizzazioni imperfette, sono frutto dell’utopia di un mondo unito senza guerre.

Quanto più uno sguardo mira oltre l’orizzonte, tanto più la società potrà prendere lo slancio per arrivarci. Ma se manca questo impulso verso l’infinito, manca la capacità di alzare gli occhi da terra e dare un senso al viaggio.

Senza sogni

Il pericolo diventa allora non solo quello di smarrirsi, ma di naufragare: la depressione, non solo del singolo, ma di una società intera senza più sogni a guidarla.

I sogni tuttavia non possono essere fatti di riforme, piani industriali e documenti programmatici. Abbiamo elevato Pnrr, premierato e patto di stabilità al rango di visioni, dimenticandoci che tutt’al più sono strumenti per avvicinarci ad esse. Se il nostro sguardo non saprà andare oltre la “resistenza” e la “resilienza”, è lecito chiedersi come faremo a scegliere la direzione quando sarà arrivato il momento di smettere di resistere e metterci in cammino.

«Siate realisti, chiedete l’impossibile» era lo slogan di una generazione che non voleva limiti ai propri sogni.

Oggi che il realismo sembra dominare gli uomini, dovrà proprio essere la politica a ricordarci che guardare all’impossibile non è più una richiesta, ma un dovere.

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