- E’ un fatto che anche laddove i diritti di cittadinanza restano invariati e anche se a votare ci andiamo regolarmente e il voto segreto ci protegge dal potere dei potenti, anche se le maggioranze cambiano.
- La diseguaglianza economica e sociale resta un problema per il funzionamento e la nostra soddisfazione della democrazia.
- Nel suo discorso al Senato, Mario Draghi ha confermato che questo è un problema citando il coefficiente Gini, un indice consolidato di misurazione della disuguaglianza a partire dal reddito delle famiglie e dalla distribuzione della ricchezza.
Tra le ragioni della “crisi” della democrazia la più reiterata è quella che insiste sulla crescita delle disuguaglianze. Facile da proclamare, questa ragione non è facile da provare. Soprattutto se si resta nella cornice di una concezione elettoralistica della democrazia. E’ prediletta dagli scienziati politici perché minima e applicabile a contesti nazionali diversi. Lo è anche dagli economisti perché includere nella definzione della democrazia le condizioni socio-economiche giustifica a priori l’intervento dello stato in economica e anche forme miste, private e pubbliche, di economia (come volevano i socialisti liberali di Giustizia e Libertà).
I fenomeni globali di ribellione e scontento in tutte le società occidentali (messi in quarantena dalla pandemia) hanno mostrato i limiti del formalismo elettoralistico. Tra società e politica c’è osmosi, tuttavia difficile da tradurre in numeri.
E’ un fatto che anche laddove i diritti di cittadinanza restano invariati, e anche se a votare ci andiamo regolarmente e il voto segreto ci protegge dal potere dei potenti, anche se le maggioranze cambiano, la diseguaglianza economica e sociale resta un problema per il funzionamento e la nostra soddisfazione della democrazia.
Nel suo discorso al Senato, Mario Draghi ha confermato che questo è un problema citando il coefficiente Gini, un indice consolidato di misurazione della disuguaglianza a partire dal reddito delle famiglie e dalla distribuzione della ricchezza.
Chi ha di più, conta di più?
La disuguaglianza è un problema anche se non possiamo dimostrare con una causalità lineare che esiste un nesso tra l’avere di più e il contare di più. Per esempio, è un fatto che si formino cordate di interessi per finanziare candidati e partiti con l’intento di portare in parlamento committenti pronti a fare leggi o a sostenere decisioni funzionali a quegli interessi.
L’inferenza è più che legittima. Tuttavia è difficile da provare. Prima di tutto perché le assemblee deliberative sono composte di numeri larghi (e che in Italia si sia voluto rimpicciolire il numero dei seggi deve destare sospetto) e poi perché i regolamenti parlamentari prevedono in molti paesi che il voto dei rappresentanti per le questioni di politiche pubbliche sia per alzata di mano. Ma sappiamo che la scrittura dei testi delle leggi può essere una strategia furbesca, il diavolo si annida nei particolari.
L’alleanza tra rappresentanza e democrazia resta sempre traballante. E benché non sia falso dire che la prima ha reso la seconda possibile, questo assunto è ingannevole se serve a nascondere il fatto che la legittimità che i cittadini ascrivono alla rappresentanza non è di principio ma contingente alle circostanze in cui funziona e agli esiti che produce. Insomma, per giudicare la democrazia occorre uscire dal recinto delle regole del gioco e prendere in considerazione la dimensione sociale ed economica. Non solo economica.
Perché le istituzioni della società - dalla famiglia alla scuola, alla cultura, ai codici linguistici, alle abitudini mentali e comportamentali – sono non meno importanti di quelle dello stato per il funzionamento della democrazia. La quale designa non solo una forma di governo, ma anche un modo dei cittadini di agire in pubblico, associandosi, discutendo, competendo.
Le decisioni democratiche
La società è democratica, non solo la forma del governo. E questo ha senso proprio perché le decisioni, anche quando non direttamente prese dai cittadini, sono comunque prese da rappresentanti che stanno in permanente relazione con le loro opinioni. Insomma, l’osmosi tra dentro e fuori non si può evitare – e quel che succede nella società si riversa, in una modo o nell’altro, in quel che verrà deciso nei parlamenti e nei governi.
Lo spazio sociale che i diritti di libertà e le regole del gioco creano, ha scritto Jürgen Habermas, consiste in una «struttura spaziale d’incontri» non episodici, «fondata sull’agire comunicativo» e fatta di associazioni e interazioni aperte e spontanee perché “libere” dal dover decidere. Il “parlare” dissociato dal “fare”, ovvero dal decidere, rende lo spazio pubblico di discussione aperto alla creatività, alla larga informazione e alla formazione e trasformazione delle idee e delle preferenze.
E’ come se il non essere condizionati dalle procedure della decisione, renda i cittadini più creativi nell’elaborare idee, produrre ipotesi, criticare e avanzare prospettive a chi dovrà decidere. Questa concezione allargata della partecipazione ci consente di correggere l’idea formalistica alla radice.
Perché ci invita a superare il dualismo tra sfera della libertà e sfera del potere; in questo modo, anche la discussione fuori delle istituzioni è parte del processo di adesione per cui, per esempio, i “classici diritti umani” si incasellano nella società e nelle sue varie istituzioni, da quelle della sfera privata (relazioni familiari, per esempio) a quella delle sfera economica e politica.
La democrazia non impone che le “sfere” extra-statali debbano essere regolate con gli stessi criteri con cui viene regolata la sfera politica. Tuttavia, un governo democratico non si disinteressa del modo in cui avvengono relazioni interpersonali, sociali ed economiche, ovvero se esse sono o no attente ai “classici diritti umani”, anche perché in queste sfere non politiche si formano le nostre riflessioni sui nostri interessi e le preferenze che porteremo con noi andando a votare.
Prima di Habermas, era stato John Dewey a chiarire in maniera magistrale la complessità della partecipazione democratica e a mettere in discussione le teorie formalistiche. Certo, votare serve a dar vita a un processo decisionale legittimo. Ma occorre prestare attenzione al fenomeno del voto nel suo complesso, al fatto che quando andiamo a votare portiamo con noi idee, speranze, preoccupazioni, delusioni e desideri che abbiamo elaborato nella nostra vita quotidiana, cosicché il nostro voto è una traduzione di quel che abbiamo appreso o sofferto.
Il voto e le condizioni di vita
I cittadini non sono macchine che sdoppiano l’atto del votare dai giudizi sulle loro condizioni di vita. Questa inevitabile parzialità di giudizio spiega perché il nostro voto viene dato insieme a quello di alcuni ma non di altri, per cui, alla fine, i nostri voti eguali pesano in maniera diversa e generano maggioranze e opposizioni. Come viviamo nella società, quali sono le condizioni nelle quali elaboriamo le nostre idee e decisioni di voto sono fattori fondamentali; in effetti sono quel che teniamo in considerazione quando giudichiamo la qualità della nostra democrazia o parliamo di “crisi”.
Questo permanente esercizio di aggiustamento di visioni individuali e collettive, sociali e politiche, emotive e razionali, mostra come nella democrazia non vi sia nulla di meccanico o automatico; essa è un processo permanente che nascere di nuovo ad ogni generazione ed è alimentato dall’educazione.
Quella scolastica certamente – la scuola pubblica aperta a tutti – ma anche quella che avviene senza premeditazione quando interagiamo con gli altri nello spazio pubblico. E giungiamo così al bene più immateriale di tutti, quello che è difficile da misurare con l’indice Gini, anche se veicolo fondamentale per soppesare gli effetti politici che quell’indice aiuta a misurare.
Parliamo evidentemente del sentimento di rispetto dei cittadini gli uni verso gli altri, che si manifesta, per esempio, nel considerare le persone per quel che fanno, non quel che sono (qui si annida la discriminazione e l’intolleranza); nel praticare un linguaggio che aiuta a promuovere relazioni di rispetto.
Ora, le disuguaglianze economiche, di cultura e di potere indeboliscono questo sentimento democratico. E poi, sedimentano col tempo un senso di superiorità da parte di alcuni, e perfino di disprezzo sociale che allontana i cittadini tra loro, portandoli a vivere in quartieri segregati, a cercare scuole e luoghi di fruizione dell’arte e della cultura che siano esclusivi.
Dal popolo alla plebe
La trasformazione del popolo in plebe - questo processo identificativo che soppesa uomini e donne per collocazione cetuale, abiti linquistici e altri segni sociali distintivi - è l’esito negativo della diseguaglianza economica che si stabilizza nel tempo. Incide sulla dignità del lavoro e facilita la crescita del senso di superiorità e di privilegio. Le picconate ai diritti sociali e ai salari decenti, ovvero l’erosione delle condizioni sulle quali è nata la democrazia nel novecento – fare dei lavoratori cittadini – ha avuto un risvolto nella boria cetuale che ritorna.
Nella Scienza Nuova, Giambattista Vico descrisse il padre della democrazia ateniese come il capo popolo dei plebei. Solone comprese che per abbattere il governo aristocratico erano necessarie due cose: liberare i poveri dai debiti che erano costati loro la libertà rendendoli servi dei loro creditori; creare negli cittadini ordinari un senso di orgoglio di sè stessi come uguali.
Nei versi poetici che gli ateniesi avrebbero dovuto memorizzare, quello che Vico definì il «saggio dalla saggezza volgare» diceva che per mantenere il potere, gli aristocratici facevano credere di essere di una pasta superiore.
L’acquiescenza seguiva la credenza che l’obbedienza fosse un atto dovuto ai migliori. Solone dichiarò che i comuni cittadini erano esattamente fatti della stessa pasta e natura dei migliori, e che quindi dovevano godere di eguale potere e libertà.
Più di duemila anni dopo Walt Withman cantò gli eguali consegnando un messaggio insuperato del valore quasi eroico del sentimento dell’eguaglianza: «In ogni persona ritrovo me stesso, e il bene e il male che dico di me lo dico anche di loro».
Il senso di uguale dignità ha la forza di guidare le istituzioni come una «passione» che, scriveva Alexis de Tocqueville, per quanto fastidiosa possa sembrare a chi non la ama e non la vuole, ispira nei cittadini comuni una «immaginazione» che alimenta in loro il senso di dignità, facendo sì che nessuno abbassi gli occhi in segno di deferenza, che nessuno si senta sminuito dalla competenza che non ha e di cui ha bisogno e si serve, ma alla quale non si genuflette.
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