In un ottimo articolo su Domani del 12 maggio, Marco Follini ha ben ricostruito la tendenza di molti ad avvolgersi nella bandiera costituita dall’immagine di un Aldo Moro semplificato, quando non debitamente travisato. È un meccanismo comprensibile: di fronte alle insidie dell’attualità il richiamo a un leader del nostro passato, benché idealizzato, può costituire utile risorsa. Tuttavia, chiediamoci se vi siano altre ragioni, più profonde, che spingono molti a guardare con interesse al patrimonio culturale e politico che dalla vita di Moro origina. Ragioni per nulla strumentali, che hanno a che fare soprattutto con un possibile profilo culturale da ritrovare.

Possiamo fare riferimento, fra le molte opere di valore sul tema, ai libri di Miguel Gotor, relativi agli scritti di Moro dalla prigionia (Lettere dalla prigionia, 2008; Il memoriale della Repubblica, 2011, entrambi editi da Einaudi). Gotor richiama l’attenzione sull’eredità politica e culturale legata alla figura di Aldo Moro e sulla possibile strada interrotta dalla mano che lo uccise. Com’è noto, nei 55 giorni della sua prigionia, Moro scrive moltissimo – anche se, come sappiamo, il frutto di tanta scrittura giungerà a noi mutilato, in tempi differenti.

Oltre alla ragnatela con cui il leader democristiano ha cercato di irretire i suoi interlocutori dentro e fuori il covo brigatista, conseguenza dell’inalienabile diritto di provare ad avere salva la vita in condizioni estreme, il moroteo «uso del discorso nel cuore del terrore» fa affiorare intatto il nucleo del pensiero politico di Moro, in continuità con le sue più significative prese di posizione, sin dai primi scritti giovanili.

Un agente della controrivoluzione

Già in tale continuità, si trova una prima lezione, relativa all’impegno quotidiano di costruire la democrazia: come già Alcide De Gasperi prima di lui, Moro non si era mai rassegnato all’idea che la democrazia parlamentare dovesse essere un privilegio dei paesi nordici e protestanti e che l’Italia fosse condannata a condividere la sorte di paesi mediterranei quali Spagna, Portogallo e Grecia, per i quali, negli anni Cinquanta, l’unico regime possibile sembrava essere l’autoritarismo.

Nell’immagine offerta dai brigatisti, Moro era un agente della controrivoluzione, un interprete locale al servizio dello stato imperialista delle multinazionali, ossia di un sistema di potere in gran parte esogeno, capace di determinare la politica italiana. Nulla di più lontano dal vero. Moro avrebbe potuto esibire quali credenziali al riguardo la diffidenza dell’establishment atlantico, le campagne d’odio della stampa di destra, la mal dissimulata ostilità di parte dell’opinione pubblica conservatrice che pure trovava accoglienza presso settori dei partiti di governo, ma che riservava a lui un astio tutto particolare. Come nelle sue lunghe stagioni da uomo libero, nei cinquantacinque giorni della prigionia, rendere giustizia alla difficile, relativa, ma costantemente ricercata autonomia della democrazia italiana e della sua classe dirigente, resta per Moro obiettivo primario.

Scrivere e combattere

Gotor ci ha mostrato come la scrittura del Moro prigioniero divenga strumento di battaglia politica. L’ultima. Per difendere l’operato dei partiti di massa, che negli anni Quaranta e Cinquanta avevano saputo ancorare alle nuove istituzioni democratiche una società appena uscita dal fascismo e dalla guerra civile. E, al contempo, per tramandare le ragioni di un progetto di riforma del paese che il prigioniero aveva a lungo coltivato, nella consapevolezza che gli assetti politici del Secondo dopoguerra non potessero più essere replicati dopo le grandi trasformazioni sociali iniziate negli anni Sessanta. Con Aldo Moro abbiamo il primo tentativo di modificare la struttura del sistema politico italiano, al fine di superare la condizione di assenza di alternanza al governo, ossia quella configurazione statica del potere politico determinata nell’Italia del primo periodo repubblicano dalla presenza quale principale partito di opposizione del Partito comunista italiano, il più importante partito comunista dell’occidente.

Secondo il leader democristiano, soltanto estendendo il potenziale accesso alle responsabilità di governo a tutte le forze politiche significativamente presenti in parlamento si poteva giungere a una democrazia dell’alternanza in grado di responsabilizzare tanto i governi quanto le opposizioni.

I partiti di sinistra

Moro non affida il successo di tale strategia all’ingegneria costituzionale, ossia alla riforma delle istituzioni – tema che caratterizzerà gran parte del dibattito politico nei decenni successivi –, bensì alla piena conversione alle regole democratiche di tutte le principali forze partitiche, ossia, detto in altri termini, alla piena maturazione democratica dei partiti di sinistra. Vanno interpretati in questo senso sia il dialogo avviato da Moro con il Partito socialista negli anni Sessanta – che ha condotto al primo governo di centrosinistra nel 1963 e al varo di un’importante stagione di riforme per il nostro paese – sia il rapporto con il Partito comunista negli anni Settanta.

Infatti Moro definisce la stagione politica che dovrebbe schiudersi dal dialogo fra il suo partito e il Pci quale «terza fase», ossia un «terzo tempo» nella storia della Repubblica – dopo il centrismo degasperiano e dopo i governi di centrosinistra aperti ai socialisti – in cui gradualmente possano essere riconosciute responsabilità di governo anche a esponenti del Partito comunista. E anche in questo Follini ha ragione: tale strada è intrapresa non certo per cedevolezza verso il comunismo e neppure per finalità consociative. Anzi. Nonostante spesso si faccia parecchia confusione al riguardo nel dibattito pubblico, la «terza fase» non è il «compromesso storico». La differenza che intercorre in proposito fra Aldo Moro e il suo principale interlocutore, il segretario del Pci Enrico Berlinguer, è di prospettiva politica e si traduce in modi differenti di concepire la collaborazione fra Dc e Pci: mentre per il segretario comunista l’obiettivo consiste in una stabile alleanza di governo, Moro immagina il possibile accordo entro un’ottica più circoscritta.

Non un incontro “storico” e a tempo indeterminato fra due “mondi”, destinati a governare assieme per un periodo molto lungo (di fatto marginalizzando le altre realtà politiche), bensì un compromesso politico temporaneo per gestire assieme una fase molto delicata e superare per tale via la pregiudiziale anticomunista. La finalità morotea, come si è detto, è giungere a una democrazia dell’alternanza, in cui i principali partiti abbiano certo rapporti collaborativi, oltreché competitivi, ma in cui sia possibile la presenza di un’opposizione in grado di prepararsi quale possibile alternativa di governo.

La dottrina della crescita

Si tratta di una proposta molto coraggiosa, troppo in anticipo rispetto ai tempi: il Muro di Berlino crollerà soltanto nel 1989 e il coinvolgimento del Pci nel perimetro dell’esecutivo costituisce un rischio elevatissimo che per Moro si rivela fatale. Resta il valore di un disegno di riforma della politica repubblicana basato sulla convinzione che i partiti fondatori della Repubblica dovessero affrontare un cambiamento profondo, confrontandosi con i molteplici fermenti innovativi presenti nel mondo delle professioni, nella scuola e nell’Università.

Ha scritto Domenico Fisichella (Dittatura e monarchia. L’Italia tra due guerre, Carocci, 2014): «Vi è chi interpreta certi eventi, fra cui il Sessantotto (...), come momenti di crescita democratica della nazione. Anche le tensioni entro i partiti e tra di essi, specie in riferimento alla questione comunista, sono vissuti come momenti di tale crescita, e Moro è tra i teorici di questa dottrina della crescita. Il suo assassinio (...) dissolve l’atmosfera di ottimismo politico che, nonostante il suo pessimismo antropologico, lo statista pugliese ha continuato a diffondere con il paradigma della crescita democratica». Più che un’atmosfera di ottimismo politico a dissolversi è l’idea che sia possibile migliorare la qualità della democrazia italiana attraverso il ripensamento del ruolo dei partiti nella società. Tale ripensamento non può prescindere dalla volontà di conoscere la società e di confrontarsi con essa, tenacemente.

La seconda lezione che giunge a noi dall’insegnamento di Moro concerne proprio lo sguardo da rivolgere alla società, mai povero di fiducia e di curiosità. È per questo che oggi resta il ricordo di un leader politico che era anche (e prima) un professore, sempre attento, nel corso degli anni, al confronto aperto con i suoi allievi (cfr. Giorgio Balzoni, Aldo Moro, il Professore, Lastarìa, 2018). Resta l’immagine di un leader che, poco dopo la “grande esplosione” del Sessantotto, invitava il suo partito «ad aprire finalmente le finestre di questo castello nel quale siamo arroccati per farvi entrare il vento che soffia nella vita, intorno a noi». E che, animato da intelligenza appassionata, intervenendo al Consiglio nazionale della Dc dopo la sconfitta alle amministrative del 1975 sostiene: «È in atto quel processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti. È un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la diversità comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione nuova alla vita sociale e politica».

Forse ripensiamo ad Aldo Moro e alla sua strada interrotta, perché rispetto a molte strade che nel frattempo abbiamo visto compiersi lui continua a proporsi quale «punto irriducibile di contestazione e di alternativa».

 

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