Sono ancora impressi nella memoria di tutti noi i lanci di stampa con cui il grande pubblico è stato informato, negli ultimi anni, degli sviluppi di quello che è oramai comunemente noto come il «processo del secolo»: una definizione reboante che, fino a non molto tempo fa, nessuno avrebbe immaginato di vedere attribuita a una vicenda processuale gestita dall’apparato giudiziario della minuscola realtà statuale corrispondente alla Città del Vaticano.
Eppure, al netto dell’espressione enfatica, non si può dire che tale fama sia immeritata: e ciò non solo per l’identità degli imputati e poi condannati in primo grado, che, annoverando tra le proprie fila un cardinale, rappresenta comunque una "prima volta” nella storia della giustizia vaticana. Se questo è il profilo che più colpisce l’attenzione a un primo impatto, scavando ancora un poco si scopre presto come le ragioni che rendono clamoroso il caso in questione sono ben più numerose e rilevanti.
Infatti, a marcare indelebilmente l’andamento delle indagini e del processo, pregiudicandoli in maniera pesante, sono intervenuti elementi capaci di mettere radicalmente in discussione la corrispondenza dell’intero procedimento ai principi di quel «giusto processo» oggi pacificamente riconosciuto come paradigma irrinunciabile dello Stato di diritto.
A ciò, in specie, si è giunti attraverso una serie di provvedimenti adottati – nella forma del rescritto pontificio – in maniera segreta e in relazione a questo singolo caso, espandendo notevolmente i poteri della pubblica accusa nella totale inconsapevolezza degli indagati: una distorsione che qualunque ordinamento rispettoso dei diritti di difesa e del due process avrebbe stigmatizzato come una violazione intollerabile. Al riguardo, occorre però guardarsi da un equivoco che porterebbe a travisare le reali implicazioni di quanto detto.
Senza conoscere i principi che reggono lo Stato della Città del Vaticano, si potrebbe cioè essere indotti a pensare che simili stravolgimenti non siano altro che il risvolto di una struttura statuale governata da un sovrano dotato di poteri assoluti. Così, invece, non è.
All’opposto, nello Stato d’Oltretevere neppure l’autorità umana più alta – cioè il romano pontefice – potrebbe mai ritenersi legibus solutus, incontrando anch’essa il limite insuperabile del diritto divino: all’interno del quale si rinviene proprio il nucleo fondamentale delle istanze di giustizia più profonde, compreso il diritto di difesa. Si tratta di un dato non ignorabile, conseguenza naturale del fatto che l’ordinamento vaticano in parola non è affatto "autosufficiente” e “autoreferenziale”: trovando esso in quello canonico la sua prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo, secondo quanto legislativamente previsto in modo esplicito ma, soprattutto, in forza dell’indelebile natura impressa alla stessa Civitas.
Quest’ultima, difatti, è sì uno Stato, ma del tutto peculiare, avendo dichiaratamente per unico scopo quello di garantire l’indipendenza della Santa Sede nell’adempimento della missione di guida per tutta la Chiesa cattolica: invertire i termini della questione, considerando la sovranità sulla Città del Vaticano come fine a se stessa, significherebbe disconoscere il senso ultimo della sua esistenza.
Sono, questi, fattori fondamentali, spesso trascurati anche da parte di chi al "processo del secolo” si è approcciato non da semplice “interessato”, ma da giurista: sacrificando però in tal modo, inopinatamente, quelle chiavi di lettura che avrebbero mostrato tutta l’insostenibilità di un impianto accusatorio viziato sin dai suoi primi passi.
Il libro
È a questi nodi che si rivolge il volume dato alle stampe in questi giorni dall’editore Marietti1820 con il titolo Il «processo Becciu». Un’analisi critica, a beneficio non solo di operatori e studiosi del diritto, ma di tutti coloro la cui curiosità sia rimasta attirata da un evento oggettivamente senza precedenti nella storia recente. A questo obiettivo ci siamo dedicati non solo con sguardo "retrospettivo”, rivolto cioè alle criticità rinvenibili già alle radici del procedimento, ma pure valutando le ripercussioni che nell’immediato futuro sembrano attendere la giustizia vaticana, se a tali storture non verrà posto rimedio nei successivi gradi di giudizio.
Esse, infatti, rischiano di mettere in moto una concatenazione di effetti inarrestabile, anche e soprattutto in considerazione della sempre maggior integrazione dello Stato della Città del Vaticano nello scenario europeo e internazionale.
Per limitarsi solo ad alcune tra le suggestioni più evocative, ampiamente trattate nel libro, si pensi, ad esempio, a cosa accadrebbe se alla sentenza si dovesse dare riconoscimento ed eventualmente esecuzione nel nostro o in un altro Paese: con la prospettiva ulteriore che, per tale tramite, non solo la pronuncia in questione ma l’intera architettura della giustizia vaticana potrebbe essere sottoposta al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, notoriamente rigorosa nel giudicare sulle violazioni dei diritti fondamentali.
O ancora: quale esito avrebbe l’emersione del contrasto tra quanto avvenuto con i contenuti di quegli atti giuridici e di quelle norme dell’Unione europea ai quali lo Stato della Città del Vaticano si è impegnato ad adeguarsi con l’apposita Convenzione monetaria in virtù della quale esso utilizza l’euro come propria moneta ufficiale?
E, più in generale, si può davvero credere che l’affidabilità fino a oggi accreditata a livello internazionale al foro vaticano in materia contrattuale si mantenga inalterata a seguito di tali preoccupanti circostanze? È questa la portata – ben più ampia e dirompente, come si vede, di quanto avrebbe potuto inizialmente apparire – dell’"onda d’urto” scaturita dalla grave ingiustizia già patita dai soggetti coinvolti: un impatto che, senza esagerazioni, rende tale vicenda davvero “epocale”.
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