Nel 1983, Jay Westerveld era in vacanza nell’arcipelago delle isole Fiji, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Westerveld alloggiava in una bettola da quattro soldi e pensò bene di intrufolarsi in un resort di lusso per rubare degli asciugamani puliti. Sui cartellini, accanto allo scaffale che accoglieva le tovagliette, Jay fu sorpreso dal leggere l’invito con cui il resort suggeriva ai clienti di riutilizzare gli asciugamani così da ridurre i danni ecologici e salvare oceani e barriera corallina.

«Aiutaci ad aiutare il nostro ambiente» concludeva il messaggio del resort. A distanza di quarant’anni, in molti alberghi troviamo lo stesso tipo di messaggio, tanto che ormai non ci facciamo più caso. Per Westerveld quel messaggio, però, era niente di più che una messa in scena, un’operazione commerciale fatta per risparmiare i costi di lavanderia, facendosi belli agli occhi del cliente, ma in realtà non c’era nessuna ragione ecologica dietro quell’invito, non si stava salvando nessuna barriera corallina.

E, in effetti, non aveva torto dato che la stessa catena di alberghi era in piena fase di espansione e continuava a costruire bungalow in ogni angolo del Pacifico. Se avesse avuto a cuore la barriera corallina, deve aver pensato Westerveld, avrebbe smesso di costruire altri resort. Quell’episodio agli occhi di Westerveld, che prima di tutto era un ecologista, deve essere stato così esemplificativo che coniò il termine greenwashing (lavare di verde), un termine che si diffuse rapidamente in tutto il mondo perché spiegava in una sola parola l’ecologismo di facciata, una pratica molto diffusa, molto pericolosa e insidiosa.

Cosa rimane

Racconto questo episodio in questa rubrica mensile perché mi torna alla mente ogni qual volta entro in un supermercato, perché lungo le corsie dove facciamo la spesa siamo circondati da messaggi simili a quelli del resort delle Fiji. E mi ricordo della fatica che devo fare – e so di non essere il solo – quando devo distinguere se dietro un prodotto si cela un’operazione di greenwashing. Percorro la corsia dei biscotti e devo ricordarmi che quando leggo “agricoltura sostenibile” a carattere cubitali su quella confezione di frollini, non vuol dire nulla, se non specifica quale metodo agricolo viene utilizzato. Devo ricordarmi di non lasciarmi influenzare da quella confezione di detersivi che scrivono “biodegradabile” o “non testato sugli animali” perché semplicemente non stanno facendo i buoni samaritani, ma stanno applicando la legge, come tutti.

Ogni volta che attraverso un reparto non devo farmi ingannare da parole come ecologico, biodegradabile, compostabile, naturale, riciclabile perché sono termini vaghi che devono essere circostanziati per essere credibili, cioè sull’imballaggio devono essere presenti anche delle spiegazioni o delle certificazioni, altrimenti non vogliono dire nulla, anzi sono pratiche commerciali sleali, truffe. Quando leggo “a impatto zero”, ad esempio, devo ricordarmi di quello spot televisivo di quella nota marca di acqua che si sbrodolava sostenendo di compensare la CO2 emessa riforestando un’area boschiva. Me ne devo ricordare perché l’Autorità garante della concorrenza e del mercato gli ha imposto una multa per pratica commerciale scorretta poiché «la riforestazione non riguardava la totalità delle emissioni inquinanti, ma solo una percentuale della produzione pari al 7 per cento del totale annuale».

Dobbiamo fare lo sforzo di ricordarci questa parola, il greenwashing, perché accompagna così tanto le nostre vite che ormai non ci facciamo neanche più caso. Già nel 2021 la Commissione europea aveva pubblicato i risultati di uno screening sui siti web di molte aziende evidenziando che nel 42 per cento dei casi vi era motivo di ritenere che le affermazioni fossero esagerate, false o ingannevoli e potessero potenzialmente configurare pratiche commerciali sleali. Non sarà arrivato il momento di smetterla di prenderci in giro?

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