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La proposta di revisione costituzionale che la Meloni presentò nel 2018 prevedeva l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma manteneva il rapporto di fiducia. Dunque niente “presidenzialismo”; al massimo “semi”. Scopiazzando malamente da Francia e Germania.
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“Presidenzialismo” e “semi-presidenzialismo”, di per sé, non garantiscono una «democrazia decidente». Basta chiedere agli ultimi Presidenti USA quante difficoltà hanno avuto a far approvare riforma sanitaria, muri messicani, o il bilancio federale. O anche a Macron, che si trova con un governo senza maggioranza assoluta.
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La formula più efficiente è forse proprio il “parlamentarismo”, con la garanzia di una maggioranza parlamentare sempre allineata al Governo, per via di quella «emanazione permanente» del rapporto di fiducia.
Le parole a casaccio abbondano in questa estate elettorale, e quella più a casaccio è “presidenzialismo”. Ti incuriosisci, vai a leggere il Programma per l’Italia, e trovi «elezione diretta del presidente della Repubblica». Questo è tutto. Uno studente così all’esame lo bocceresti senza pietà.
Cominciamo da quello che “presidenzialismo” non è. Non è “parlamentarismo”, in cui esiste un rapporto di fiducia tra parlamento e governo: i due stanno in piedi insieme, o non stanno in piedi. Senza fiducia del primo, il secondo si dimette, tanto che un maestro scriveva che il governo è «emanazione permanente» del primo.
Tale «emanazione» garantisce il collegamento tra corpo elettorale ed esecutivo, che altrimenti non vi sarebbe, mancando l’elezione diretta del governo. Tanto che dove invece l’elezione diretta del governo esiste, non c’è alcun bisogno del rapporto di fiducia: ecco il “presidenzialismo”. Qui nessuno ha bisogno della fiducia dell’altro: entrambi poggiano la propria legittimazione direttamente sulla volontà elettorale. E nessuno li muove da lì.
Tra i due sistemi, poi, c’è una terza via. È il “semipresidenzialismo”, che cerca di prendere il meglio di entrambi, in una complicata chimera. Un presidente della Repubblica eletto direttamente, che condivide il timone del governo con un primo ministro che è sì di sua nomina, ma che ha bisogno della fiducia del parlamento.
La proposta
Il famoso Programma dell’Italia non è chiaro sul punto, ma se uno guarda alla proposta di revisione costituzionale che Giorgia Meloni e altri presentarono nel 2018 al parlamento (e lì fallita), si capisce che è a questa terza via che si guarda.
Quel disegno di legge, infatti, prevedeva sì l’elezione diretta del presidente della Repubblica, ma manteneva il rapporto di fiducia. Dunque niente “presidenzialismo”; al massimo “semi”. Scopiazzando, peraltro, malamente da Francia e Germania.
Il presidente della Repubblica, eletto direttamente, non sarebbe stato parte a stretto titolo del governo, ma, come in Francia, avrebbe presieduto il Consiglio dei ministri; e addirittura avrebbe diretto la politica generale del governo, mentre in Francia tale direzione è del primo ministro.
Dalla Germania, invece, si prendeva la “sfiducia costruttiva”: nessuna possibilità per il parlamento di sfiduciare il governo, senza contestuale fiducia ad un nuovo esecutivo. Solo che in Germania questa sfiducia la può votare solo la Camera bassa (il cosiddetto Bundestag), mentre in Italia sarebbe bastato il voto di una sola delle due Camere, alla faccia della maggiore stabilità. Senza contare che in Germania è proprio tutto diverso, e né il presidente federale né il capo del governo vengono eletti direttamente dai cittadini.
Il significato vero
Speriamo che questa volta abbiano l’umiltà di studiare un po’ di più. Imparerebbero, peraltro, che “presidenzialismo” e “semi-presidenzialismo”, di per sé, non garantiscono mica quella «democrazia decidente» che li eccita così tanto.
Basta chiedere agli ultimi presidenti americani quante difficoltà hanno avuto a far approvare riforma sanitaria, muri messicani, o ogni anno il bilancio federale. Nel “parlamentarismo” il rapporto di fiducia garantisce che parlamento e governo la pensino (tendenzialmente) sempre uguale; ma se presidente e Congresso li eleggi invece separatamente, e senza fiducia, rischi due posizionamenti politici non necessariamente allineati, e un presidente senza una maggioranza al Congresso che lo sostenga, può far poco.
Non va meglio col “semipresidenzialismo”. Per come è costruito il sistema, se in parlamento c’è un maggioranza del colore politico diverso da quello del presidente, questi è praticamente obbligato a nominare (e a tenersi in casa; non a caso di parla di cohabitation) un primo ministro a lui non allineato politicamente, per non vederselo automaticamente sfiduciato. E non è proprio una passeggiata di salute: lo andassero a chiedere a Emmanuel Macron, che a questo giro la cohabitation l’ha sfiorata, e ora si trova comunque con un governo senza maggioranza assoluta.
Insomma, alla fine scopri che la formula più efficiente è forse proprio il “parlamentarismo”, con la garanzia di una maggioranza parlamentare sempre allineata al governo, per via di quella «emanazione permanente» del rapporto di fiducia. Se la cosa certe volte non funziona, non è per la forma di governo in sé, ma per altri fattori, di natura istituzionale e politica.
Solo che così il discorso diventa troppo complicato, e le campagne elettorali non son fatte per i discorsi complicati, specie se sono così schiacciate come quella 2022, in cui gli slogan da bocciatura all’esame sono il massimo che ti puoi aspettare.
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