- Uno degli aspetti da considerare con sempre maggiore attenzione è la valutazione dell’interazione/integrazione tra i diversi ambiti (università, imprese, istituzioni e società civile) che rientrano nella valutazione.
- Se da una parte la diffusione dell’innovazione tecnologica si configura come un tradizionale aspetto della Terza missione, sotto alcuni aspetti, potrebbe paradossalmente contribuire all’aumento della disuguaglianza.
- Serve invece affermare sempre più una logica di condivisione della conoscenza, che comporta relazionalità tra i diversi attori del processo.
In una società basata sulla diffusione della conoscenza l’essenziale contributo del sistema universitario deve interagire fortemente con il sistema delle imprese e quello istituzionale, come sottolineato fin dagli anni Novanta dall’approccio della “tripla elica” di Henry Etzkowitz e Loet Leydesdorff.
Ma come questi aspetti si intrecciano con l’obiettivo di una maggiore equità e riduzione delle disuguaglianze? Il dibattito avviato dal Forum Disuguaglianze e diversità con l’Anvur e il sistema universitario sulla valutazione della qualità della ricerca della cosiddetta “Terza missione” delle Università, presenta al riguardo diversi aspetti di innovazione, laddove inserisce sia nuovi ambiti di intervento sia la valutazione dei «princìpî di equità e parità di opportunità, l’obiettivo di ridurre condizioni di ineguaglianza e la valutazione anche di contributi di natura indiretta dell’azione universitaria».
Interazione tra i diversi ambiti
Uno degli aspetti da considerare con sempre maggiore attenzione è la valutazione dell’interazione/integrazione tra i diversi ambiti (università, imprese, istituzioni e società civile) che rientrano nella valutazione.
Per quanto almeno a partire dagli anni Novanta questa problematica sia stata posta al centro del trasferimento tecnologico di matrice universitaria, ancora oggi fatichiamo a inserire una piena considerazione della valutazione della relazionalità con le imprese e il sistema istituzionale.
Infatti, se da una parte la diffusione dell’innovazione tecnologica si configura come un tradizionale aspetto della Terza missione, sotto alcuni aspetti, potrebbe paradossalmente contribuire all’aumento della disuguaglianza tra imprese e alla costruzione di rendite, se non assicura la parità di accesso ai processi di innovazione, in particolare delle imprese micro e piccole che dispongono di risorse limitate al riguardo e bassissima possibilità di accedere a tecnologie di frontiera.
Pensiamo ai brevetti, e più in generale alle forme di proprietà intellettuale, che spesso sono considerate secondo la logica di passaggio lineare, tra ente che produce la tecnologia e azienda che la utilizza.
Condividere la conoscenza
Serve invece affermare sempre più una logica di condivisione della conoscenza, che comporta relazionalità tra i diversi attori del processo, insieme a un’adeguata azione di accompagnamento, orientamento e decodifica dei fabbisogni imprenditoriali: secondo una indagine condotta da Dintec-Unioncamere infatti per il 64 per cento delle pmi il principale ostacolo all’innovazione non sono le risorse per innovare, bensì le difficoltà di sapere su che cosa e come orientare il processo innovativo.
Tra le diverse forme di innovazione l’open innovation, che comporta attività di congiunte tra impresa Università, sub-fornitori e consumatori, opera in una logica di condivisione.
Secondo un’analisi del centro studi Tagliacarne l’open innovation è meno concentrata e più diffusa, rispetto alle altre modalità di innovazione, nelle micro-imprese, perché è segnalata dal 22 per cento delle aziende sotto i nove addetti, contro il 6 per cento nel caso dei brevetti.
Inoltre stimola comportamenti aziendali più attenti alla socialità e alla partecipazione: le imprese che fanno open innovation investono nel welfare aziendale nel 58 per cento dei casi contro il 38 per cento di quelle che non la fanno, sono più attente agli investimenti a favore del territorio e delle comunità nel 38 per cento dei casi contro il 18 per cento delle altre, collaborano con il terzo settore nel 35 per cento delle situazioni contro il 19 per cento, e hanno anche una più diffusa coscienza green nel 57 per cento dei casi contro il 36 per cento.
Processo partecipato
In sintesi l’open innovation sottolinea la capacità di una Terza missione più attenta all’impegno civile e si presta a realizzare uno «spazio di consenso per l’innovazione» attraverso l’interazione tra imprese, università, istituzioni e società civile, superando una logica di trasferimento strettamente guidata dalle anguste logiche di mercato, e lavorando sul reciproco arricchimento tra network istituzionali e società civile.
Le implicazioni dell’open innovation sono il superamento della logica lineare; l’identificazione e misurazione (anche qualitativa) degli effetti indiretti che considerino la mutua valorizzazione tra le diverse componenti; l’esplicita valutazione anche delle azioni di animazione e di affiancamento alle imprese.
Il tutto richiede un processo partecipato per la misurazione degli impatti dell’innovazione che rende quindi, anche da questo punto di vista, “sociale” la valutazione ed è uno stimolo per identificare nuovi indicatori quali/quantitativi di misurazione degli effetti di queste iniziative.
Su questi aspetti l’inserimento nei criteri Anvur del campo della open science è sicuramente un passo avanti significativo rispetto alla visione tradizionale del trasferimento.
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