Il primo trambusto suscitato dalla proposta di Enrico Letta di aumentare le tasse di successione, da più di un ventennio molto basse, e anzi azzerate da Berlusconi, si è per un momento placato. Si va a strappi, in attesa del prossimo. Allora abbiamo tempo di fermarci su alcuni aspetti della questione sui quali certamente saranno curvi i consulenti del segretario.

Materiale ce n’è in abbondanza, perché la trasmissione degli averi tra le generazioni è meccanismo essenziale dell’ordine sociale e domina il processo storico sotto tutte le latitudini. Nell’ordine germanico antico, ad esempio, nel sistema che chiamiamo “feudale”, la titolarità passava sì da un capostipite all’altro, ma non sempre potevano influirvi i singoli, che erano intesi come possessori protempore di un patrimonio familiare. È la logica del fedecommesso, antico istituto romano che impediva la cessione dei beni al di fuori della famiglia. Quando si legge che nel Settecento i signori del nord Europa spendevano e spandevano nel gran tour italiano lasciandosi dietro una scia di debiti, era appunto perché spesso non avevano la disponibilità dei propri averi, o di quelli paterni. Vincoli simili erano ovunque, come quelli della “manomorta”, dove i beni degli enti – in genere religiosi, non diversamente da quanto accade nel wafq islamico – sono intrasmissibili. Del resto, è anche cosa di oggi quando i beni sono incorporati, conferiti a società anonime, a trust, ecc. Sono cose che riguardano la storia, ma anche la proposta Letta, si badi.

Su quel mondo di corpi e privilegi a fine Settecento si abbatterono i diritti civili e la Rivoluzione. Abolita la nobiltà ereditaria, espropriati i beni della chiesa e possibilmente frantumati i latifondi, tra i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo, proclamati già in America nel 1776 e poi in Francia nel 1789, insieme alla libertà, alla sicurezza e alla resistenza all’oppressione troneggiava la proprietà. La proprietà individuale e assoluta fu nuovo dogma del secolo. La proprietà è radice di ogni progresso e di ogni libertà, dicevano gli uni, è un furto, è fonte delle diseguaglianze, dicevano altri, che la volevano abolita del tutto.

Si aprì una stagione – che dura tuttora – dominata dal problema delle ineguaglianze. Tra chi le voleva solo ridimensionare e chi le voleva abbattere, si cercava la giusta proporzione, e ancora si cerca. I privilegi ci fossero pure, dicevano gli uni, ma fossero conquistati dal singolo: l’eguaglianza doveva essere di partenza, dando a tutti eguali possibilità, non di arrivo, livellando le fortune. Tra chi era del secondo avviso, i più radicali dicevano: tutti si contentano di un unico sole e di una stessa aria, perché non dovrebbe bastare a ciascuno di loro la stessa qualità e la stessa quantità di alimenti?

Testamento

Una volta aboliti i fedecommessi, nella assemblea costituente francese – siamo nel 1789 – si parlò allora della libertà di far testamento, un tema assai caldo. Non porvi limiti, e consentire che ciascuno disponesse dei propri beni a suo piacimento, come vorrebbe una piena libertà, avrebbe concentrato le fortune, le ricchezze non guadagnate.

Così accadeva in Gran Bretagna, col duplice effetto di accumulare le maggiori ricchezze fondiarie del continente e di “liberare” le energie dei figli cadetti, spinti alla carriera delle armi o del sacerdozio, o alle avventure imperiali. Invece sul continente rivoluzionario si optò per tutt’altro regime, quello dettato dal codice civile. Libertà sì, ma con dei limiti. In mancanza di un testamento, decideva la legge in senso egualitario tra i figli. Una ideologia egualitaria permeò ogni discorso, e lo stesso linguaggio dei testamenti, che predicava lo stesso amore e la stessa cura per tutti i figli. A ogni buon conto, provvedeva la legge: la libertà di testare fu limitata, dovendo una quota dei beni necessariamente andare in parti eguali ai figli (in genere maschi, alle femmine essendo destinata la dote).

Era – ed è tuttora –, la quota “legittima”, che appare come un residuo del principio fedecommissario, rendendo indisponibile almeno una parte dei beni, che devono andare ai figli (e almeno in uso alla vedova). Qui le due logiche – libertà assoluta e vincoli familiari – producono uno strano cortocircuito, giacché il proprietario è libero di sperperare i suoi beni al gioco d’azzardo, ma se effettua delle donazioni queste saranno comunque computate, “collazionate”, nell’asse ereditario. In parte distribuendo il patrimonio, la legittima comunque modera l’accumulazione delle ricchezze e fraziona la proprietà.

Al congresso di Vienna, nel 1815, discutendosi il nuovo ordine dopo il tracollo napoleonico, saggiamente Metternich si oppose allo smembramento della Francia sconfitta – saggezza che un secolo più tardi sarebbe mancata ai vincitori della Germania – affermando che la Francia sarebbe stata comunque indebolita dal suo codice civile, che avrebbe distrutto la proprietà fondiaria.

Sulla trasmissione dei beni fu imposta una tassa, quella di cui si parla. Era comunque difficile stabilire la misura dei vincoli e delle imposizioni fiscali, oscillanti tra criteri più liberali – intesi a stimolare l’iniziativa economica (così ancora oggi opina la destra) – e criteri più sociali e “riequilibratori” delle diseguaglianze (così oggi opina la sinistra). O almeno la sinistra sociale – o social-democratica – giacché quella comunista inclinava a seguire il Manifesto del 1848, dove Marx e Engels proponevano l’«abolizione del diritto di successione» (dunque non della tassa, ma del diritto), mentre nelle coeve Rivendicazioni del partito comunista in Germania si parla di una sua «limitazione», che è cosa un po’ diversa. Al riguardo, i sovietici tagliarono corto abolendo proprio la proprietà: l’antico detto «da ciascuno secondo le sue capacita, a ognuno secondo i suoi bisogni» della Costituzione del 1918 diventò in quella del 1936 «da ciascuno secondo le sue capacita, a ciascuno secondo il suo lavoro». Altro che tassa di successione.

Ordine borghese e identità

Decenni or sono, quando visitai la Praga sovietica, dove sopravvivevano tristi i relitti dell’antica borghesia, mi colpì l’amarezza di una anziana signora, che rimasta ormai sola doveva lasciare lo spazioso appartamento della sua vita, da assegnarsi a una famiglia più numerosa. La giustizia fiscale e il ridimensionamento delle ineguaglianze infatti difficilmente tengono conto del fatto che molte volte i beni immobili – terreni o gli edifici, ma anche i luoghi di lavoro – anche se esprimibili in valori monetari possono definire l’identità familiare, la storia e la memoria dei singoli.

Faceva dunque parte dell’ordine borghese eternato dal codice civile la denuncia delle successioni patrimoniali e il pagamento di una apposita imposta. Qualche decennio fa, a storici francesi e italiani venne in mente di misurare la distribuzione e l’andamento della ricchezza “borghese” compulsando le dichiarazioni di successione di metà Ottocento conservate negli archivi. Ne sortirono spaccati molto istruttivi, forse anche per i legislatori di oggi. Infatti i patrimoni così registrati non risultarono così rappresentativi come si era immaginato. Non sempre e non tutta la ricchezza cadeva infatti in successione.

La valuta era nei cassetti e nelle casseforti, e gran parte della ricchezza mobiliare non era nominativa. Emergevano terreni e immobili, ma diversi meccanismi li precludevano all’imposta. Non si trattava soltanto di evasione; del resto l’imposizione fiscale era poco severa (e a quell’epoca non progressiva). Piuttosto, risultava evidente che i titolari di patrimoni ingenti, se anziani, tendevano a disporne prima della morte, per motivi di ordine psicologico e affettivo, o che chiamavano in causa complesse dinamiche familiari. Cosicché le successioni studiate fotografavano con buona approssimazione la consistenza di un patrimonio solo in alcuni casi, dovuti all’individualismo dominante del titolare, o magari alla sfiducia verso gli eredi, ma soprattutto dipendevano dall’età della morte, se tardiva e naturale, o improvvisa e imprevista. È ben raro che un morente anziano non voglia morire leggero, e per la salvezza dell’anima sua e del suo patrimonio, non abbia già disposto dei suoi beni prima della fine.

Tutti elementi che sicuramente i consulenti di Letta staranno studiando.

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