Gli Stati Uniti hanno avuto il Nevada Test Side con oltre 1.000 test nucleari. I russi la città ultrasegreta di Kurchatov, dal nome del padre del nucleare russo dove, quando per la Rai ho visitato il sito dei 700 test sovietici, il Ground Zero, in una zona sperduta del Kazakistan, era, a distanza di decenni, ancora avvelenato da pericolosissime radiazioni. 

Siamo cresciuti sotto l’ombrello della “dissuasione” nucleare. Già dalla fine degli anni Sessanta divenne chiaro alle superpotenze che la guerra nucleare non poteva essere vinta e che, per quanto fosse vasto l’arsenale di cui disponevano, ci sarebbe sempre stata una testata nucleare che avrebbe colpito il proprio territorio provocando danni irreparabili.

La dissuasione è dunque figlia della nostra epoca. “Se mi fai qualcosa, ti faccio qualcosa", un concetto talmente basilare da essere declinato in tanti diversi proverbi. Si deve alla dissuasione la risoluzione della crisi di Cuba, quella in Europa con gli SS20 sovietici e la risposta della Nato e numerosi altri eventi della storia recente.

Un ombrello bucato

Oggi lo stesso ombrello sembra essersi bucato e ci stiamo abituando a considerare l’ipotesi di un’arma nucleare russa “tattica”, come se quell’aggettivo, “tattica”, ci preservasse dall’impatto che avrebbe sull’intero continente. Utile sapere che nella categoria “tattica”, l’arsenale russo annovera 2.000 ordigni: è ben chiaro che a una prima esplosione, ne potrebbero seguire un’infinità. Una prospettiva terrificante. Molte “piccole” bombe possono cioè provocare danni irreparabili.

Tanto più che in questa categoria ricadono una infinità di ordigni nucleari, comprese mine, lanciamissili portatili o addirittura le cosiddette “valigette nucleari” di cui nessuno conosce l’impatto poiché, a differenza delle bombe atomiche dette “strategiche” e molto più potenti, non sono mai state utilizzate – e speriamo mai lo saranno – in alcuna attività militare. 

Gli esempi della storia

La storia è costellata di infami episodi in cui la dissuasione non è bastata a contenere la belligeranza e, dunque, la distruzione reciproca. Basti pensare ai bombardamenti su Londra seguiti, a distanza di due anni, da quelli sulle città tedesche.

In quella fase della Seconda guerra mondiale c’era la convinzione che quei bombardamenti servissero a fiaccare le resistenze degli avversari colpendo, pressoché indiscriminatamente, obiettivi civili. È per questo che abbiamo sperato che la dissuasione “nucleare”, per il danno inevitabile che potrebbe recare al mondo intero sino alla totale distruzione dell’umanità, sarebbe bastata a tenere lontano ogni rischio.  

La guerra in Ucraina è iniziata e si è sviluppata proprio su questo assunto: armi convenzionali, per quanto terribili nella loro capacità di uccidere e distruggere, dall’una e dall’altra parte. Ma solo quelle.

Oggi però le cose sono cambiate. Quel che resta dell’Armata rossa – cui molti attribuivano, ancora pochi mesi fa, qualità di grande esercito – si è dimostrato fragile. Nella catena di comando, negli approvvigionamenti, una enorme massa di blindati facile preda di missili telecomandati e, soprattutto, senza il vantaggio di pensare di combattere per una giusta causa.

Modello Gengis Khan?

Secondo il New York Times, che cita analisti militari, i recenti bombardamenti in dieci città ucraine indicherebbero non tanto la deliberata ricerca di obiettivi civili (da cui l’indicazione della Casa Bianca che si tratterrebbe di crimini di guerra) quanto l’effetto della drastica riduzione degli arsenali: dopo mesi di combattimenti sarebbero rimasti ben pochi missili teleguidati, sostituiti da testate balistiche, alcune persino di epoca sovietica, ovviamente molto meno precise.

Gli storici si sono sempre chiesti perché le conquiste belliche di Gengis Khan, il cui mito ancora aleggia in Asia centrale, si concludessero con l’annientamento di intere città. La logica vorrebbe che le conquiste militari vengano rivendicate e non si proceda con l’annientamento del nemico e delle sue ricchezze. L’unica spiegazione è che l’identità nomade di Gengis Khan non gli permettesse di capire che le città fossero luoghi di accumulazione di ricchezza, di trasformazione di materie prime. Per chi vive in una tenda, le case sono un inutile spreco di risorse.
Ora, mutatis, mutandis, si può immaginare che la Russia di Vladimir Putin si stia comportando irrazionalmente, come il condottiero mongolo, immaginando di utilizzare armi che rischiano di contaminare per sempre gli stessi territori che rivendica?

L’analisi dei comportamenti, come nella teoria della dissuasione, si basa su assunti psicologici, ma la storia ci insegna anche che non c’è guerra che non produca indicibili sofferenze per la popolazione civile, da qualunque parte del fronte essa sia.

L’insegnamento della storia

Il Trattato di non proliferazione nucleare (che include tutto il mondo fuorché cinque nazioni) è stato forse l’accordo internazionale più popolare nella storia dell’umanità, seguito dal movimento popolare Nevada-Semipalatinsk che negli Stati Uniti e in Unione sovietica ha contribuito a far crescere la consapevolezza del rischio nucleare. È possibile che il mito della dissuasione e il precipitato di quanto appreso in millenni di guerre, si disperda nell’autunno del 2022 nelle piane dell’Europa centrale?

Ciò che è successo con i test in Nevada, a Semipalatinsk o nella Polinesia francese, in cui, a distanza di decenni, il tasso di gravi malformazioni è altissimo, ci deve essere di monito. Davanti a una simile minaccia non esiste via di uscita che non sia quella di un accordo basato, se non altro, sulla convinta dissuasione che, nell’escalation, non ci potrà essere un vincitore.
 

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