Non è il solito dibattito tra chi era blairiano e chi non lo era abbastanza: dopo anni di crisi e smarrimento del campo progressista nuove energie si sono messe in moto e nuove conversazioni nascono con nuove parole d’ordine
- La vittoria di un presidente democratico negli Stati Uniti ha dato il via al solito dibattito tra moderati e radicali.
- Ma dopo decenni di crisi continua della sinistra, queste due parole hanno perso completamente significato.
- Se i progressisti vogliono tornare a vince, dovranno ricostruire questa identità perduta: qualcosa si sta già muovendo, anche in Italia.
La vittoria di un candidato democratico alle presidenziali degli Stati Uniti non poteva che avere un forte riflesso anche in Italia, tra i grandi paesi del continente europeo forse il più suggestionabile dalle vicende politiche americane. Nel campo della sinistra, o se non piace questo termine, dei progressisti, ognuno ha interpretato l’elezione a modo suo.
I moderati hanno sottolineato la vittoria di un centrista e alcuni sono arrivati a parlare di «nuova via progressista di Biden-Starmer». Per i più radicali, il fatto che quella di Biden sia stata in qualche misura una vittoria deludente, è una segno che i tempi richiedono azioni più decise contro le diseguaglianze del sistema. L’avvicinarsi del centenario della tragica scissione di Livorno, quando il Partito socialista italiano si divise proprio mentre il fascismo si apprestava a prendere il potere, ha contribuito ad accendere gli animi.
All’apparenza, è l’ennesima declinazione di quello che è oramai diventato noto con il terribile termine di “dibattito tra massimalisti e riformisti”. Ma se questa volta riuscissimo a fare un passo indietro rispetto alle polemiche stagnanti su chi era blairiano e chi non lo era abbastanza, potremmo accorgerci che una questione c’è. Ed è molto seria.
Orfani di una vittoria
Stiamo per entrare nel 2021 e un’intera generazione ha raggiunto la maturità politica senza aver mai conosciuto una vittoria convincente dell’area progressista. Era soltanto la fine degli anni Novanta quando si diceva che era possibile camminare da Lisbona a Stoccolma passando solo per paesi governati dal centrosinistra.
Nel lungo quindicennio che è seguito, i progressisti hanno conosciuto solo sconfitte o vittorie effimere e deludenti. Lo sbandamento politico e morale iniziato negli anni Settanta si è acuito. Mai come ora la sinistra sembra in crisi di ideali e di visioni. E per una volta non è un modo di dire. In questo largo campo coesistono, nella sua più ampia e inclusiva definizione, Matteo Renzi e Jeremy Corbyn. E c’è chi vorrebbe allargarlo ancora, mettendoci dentro la Forza Italia di Silvio Berlusconi.
Bisogna davvero risalire alla scissione del 1921, quando ci si divise tra chi voleva la rivoluzione e chi il parlamento, per trovare un altro momento in cui i poli della “sinistra” erano così lontani. Ma anche in questi guazzabuglio in cui ognuno pensa di potersi intestare Enrico Berlinguer (e Giorgio Almirante allo stesso tempo), è possibile con un po’ di sforzo separare il grano dal loglio e individuare quelle idee che hanno certamente fatto il loro tempo.
«Si vince al centro, a sinistra si perde. La tesi è da anni Novanta e già all’epoca non era sempre efficace, ma oggi, nell’era dei populismi e dei radicalismi, è largamente rottamata», ha scritto ad esempio Daniela Preziosi su Domani.
In altre parole, è fuori dal tempo ripetere l’apparentemente magica ricetta del 1997. Hanno scritto in molti che quella di Biden è quanto di più lontano da un ritorno in auge della Terza Via. Preziosi cita Antonio Funiciello, che ha ricordato come da vent’anni ormai lo politica americana non sia più una corsa al centro. Sempre su Domani, Nicola Melloni ha sottolineato lo strano risultato dei referendum che si sono tenuti lo stesso giorno delle presidenziali americane. Nella liberale California, gli elettori hanno votato per non riconoscere agli autisti di Uber lo status di lavoratori dipendenti. Nella conservatrice Florida, hanno invece approvato uno storico aumento del salario minimo.
Le carte si sono mischiate, le coalizioni sociali sono cambiate. I leader che vincono, come Biden, sono moderati, ma quanto sono lontani da Clinton, che approvava la più grande deregolamentazione finanziaria della storia recente. E quanto è lontano, nell’epoca di Black lives matter, il moderato Blair, che prometteva di essere «tough on crime».
Dov’è il centro?
Dopotutto forse è ancora vero che si vince al centro, ma dov’è il centro adesso? Dov’è quel baricentro intorno al quale i progressisti possono riuscire a costruire una coalizione vincente e duratura?
Non è detto che venga trovato, non in questa generazione. La sinistra, molto più della destra, ha una lunga storia di faide e incomprensioni che, come dopo il 1921 in Italia, l’hanno tenuta divisa e impotente per decenni.
Ma su come questo accadrà, qualche ipotesi è possibile formularla. Ad esempio, sembra sicuro che non saranno le fondazioni-partito massacrate dalle inchieste a far ripartire la sinistra. Con la Terza Via è finita anche la politica dei personaggi. I cicli politici sono diventati brevissimi, sotto la pressione logorante di un sistema mediatico impazzito per la concorrenza dei social media. Chi ha un capitale politico personale dovrà giocarselo con attenzione se non vuole diventare l’ennesima meteora che dopo una breve stagione in politica si mette in cerca di conferenze ben pagate in giro per il mondo.
Per avere un ruolo nell’influenzare il futuro, i progressisti dovranno prima di tutto ritrovare la loro anima. Anni di grandi coalizioni con il centro e con la destra hanno diluito persino il significato di parole come “sinistra" e “area progressista”. Ricostruire questi significati sarà un esercizio che gli anglosassoni definiscono con l’adeguatamente drammatica espressione di “soul searching”, o ricerca dell’anima.
Non saranno i partiti da soli, i loro consiglieri e sondaggisti a farlo. Un ruolo centrale lo avranno gli intellettuali, i sociologi, gli storici e gli economisti, questi ultimi, auspicabilmente, con un ruolo un po’ meno centrale di quello avuto fino ad oggi.
Qualcosa sta già avvenendo, anche in Italia. Il Forum diseguaglianze diversità di Fabrizio Barca è forse una delle più articolate e interessanti di queste realtà. Le prossime elezioni comunali a Roma saranno un altro interessante laboratorio, con le conversazioni già iniziate tra Carlo Calenda e una parte della sinistra. Il saggio La questione romana, pubblicato da Marco Simoni sulla Rivista il Mulino, gli incontri con il suo direttore Mario Ricciardi e il dialogo tra Simoni e lo scrittore Christian Raimo, esponente di un’ala ben più radicale del movimento progressista, sono tutti tentativi che vanno in questa direzione di dialogo e ricostruzione dell’identità. Si tratta di una conversazione in cui ognuno tira dalla sua parte e che, per forza di cose, prima o poi porterà a tracciare dei confini, non necessariamente ristretti e settari. La sinistra può, ed è stata, amplia e inclusiva.
Alla fine, da questo dibattito può uscire una coalizione vincente. È accaduto negli Stati Uniti, dove quel che resta da vedere è se la vittoria sarà consolidata dai radicali o dai moderati. Può accadere anche qui in Italia, poiché come iniziano i cicli politici finiscono e altri ne sorgono. Ma non è detto che saremo noi a vederli.
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