Tre processi penali (Toti, Ilva, Salvini) hanno riportato sulla scena il vecchio tema dei rapporti tra giustizia e politica non in termini, stavolta, di puro conflitto tra categorie, ma di scelte strategiche e ideologiche da parte di alcuni settori della magistratura.

L’ideologia è una visione del mondo e dei suoi valori, qualcuno ne ha sancito il definitivo tramonto, ma, se c’è una corporazione che ne custodisce gelosamente la memoria, ebbene questa è la magistratura.

La definizione del caso Toti ha sorpreso molti e suscitato critiche verso la scelta dell’ex governatore: invece dovrebbe destare altrettanto scalpore la decisione della procura genovese di offrire essa stessa a Toti la soluzione per un esito più soffice della sua vicenda giudiziaria che lo aveva visto detenuto per diversi mesi.

I pm hanno messo sul piatto la concessione dell’ipotesi meno grave di corruzione, quella per gli atti legittimi dell’ufficio, che rende difficile capire la feroce determinazione con cui è stata perseguita la custodia cautelare e le espressioni durissime adottate fino a indurre l’indagato alla rinuncia al suo ufficio elettorale. Ciò è spiegabile con la necessità di cogliere un risultato che rendesse legittima l’azione giudiziaria, perché in caso contrario la forza simbolica della vicenda sarebbe venuta meno.

Nello stesso tempo, la corte di assise di appello di Lecce ha spazzato la corposa sentenza con cui i giudici di Taranto in primo grado avevano condannato a pene durissime (oltre vent’anni di reclusione) i vertici dell’Ilva di Taranto per il reato di disastro ambientale doloso. All’origine della clamorosa scelta vi è l’incompetenza funzionale originaria dei magistrati jonici in quanto parti offese dei reati per i quali hanno condannato. La difesa aveva posto la questione sin dalle prime battute, dimostrando che tra le parti offese si erano costituiti due magistrati e che alcuni dei componenti la giuria vivevano negli stessi luoghi delle parti civili del processo.

I magistrati di Taranto si sono ferocemente opposti a ogni possibilità di trasferimento del processo, che oggi rischia di sfumare definitivamente nella prescrizione. Tale insistenza trova la sua spiegazione proprio nel grande valore simbolico di una condanna perseguita e raggiunta dai magistrati della città vittima del danno ambientale, e anche in una certa cultura densa di pregiudizio verso le ragioni dell’industria.

L’ideologia di una visione militante del proprio ruolo è un vecchio retaggio di una forte componente della magistratura che pure ha avuto il non indifferente merito di contribuire alla modernizzazione del paese nel Dopoguerra contribuendo alla concreta applicazione della Costituzione, che rischiava di restare una vuota proclamazione di principi.

Per un accurato approfondimento si rimanda al bel volume di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli Conflitto tra poteri (Il Saggiatore).

L’idea di una giustizia asettica è pura ipocrisia: il diritto è una visione culturale e ideologica, e nella sua prassi applicativa, nelle aule giudiziarie, fatalmente si riflette anche la contrapposizione politica.

Di ciò è un perfetto esempio il processo a Matteo Salvini. Altri hanno spiegato molto bene il conflitto tra i principi costituzionali e le varie normative-sicurezza varate dai governi populisti. Da Norimberga in poi è patrimonio comune che l’obbedienza alla legge formale non giustifica l’offesa a principi morali di base che sono parte del patrimonio dell’umanità. Tale è il soccorso verso chi è in pericolo.

Eppure vi è qualcosa che stride nell’accusa a Salvini, ed è la qualificazione del reato a lui contestato in modo spropositato. Non sussiste il sequestro di persona, che è il frutto di una interpretazione forzata dell’art. 2 della direttiva europea 2013/33, che definisce il concetto di «luogo di trattenimento» e non può adattarsi a una nave cui viene rifiutato l’attracco, semmai ai centri di accoglienza.

In tutta franchezza, tale forzatura fa pensare all’esigenza di un’adeguata pesante condanna simbolica perché altrimenti i reati in astratto configurabili e più calzanti (dalla violenza privata all’omissione di atti di ufficio) consentirebbero solo condanne assai più modeste.

Non consentirebbero in particolare l’adeguata sanzione etico-culturale di un individuo e delle sue idee aberranti e lo sfogo adeguato all’indignazione.

Il rischio tuttavia è di dargli l’immeritata etichetta di vittima politica: un regalo che Salvini non merita. Speriamo lo capiscano i giudici di Palermo.

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