- I manifestanti a Genova nel 2001, prima degli scontri e della repressione nel sangue, avevano capito tutto della globalizzazione o non avevano capito nulla?
- I “no global” erano in realtà il seme fruttifero di un’opinione pubblica globalizzata che aveva al suo interno una pluralità di analisi molto più ricca dei documenti della stessa epoca di istituzioni come il Fondo monetario internazionale.
- La stagione dei sovranismi è stata prodotta dall’aver rimosso per troppo tempo le domande sollevate da piazze come quella di Genova, col risultato che poi sono arrivate risposte pericolose e sbagliate da demagoghi e populisti.
I manifestanti a Genova nel 2001, prima degli scontri e della repressione nel sangue, avevano capito tutto della globalizzazione o non avevano capito nulla? In questi giorni di anniversario si assiste a un esplicito uso politico della storia: il governo tace sulla violenza istituzionale, confermando la volontà di un oblio che esclude ogni ammissione di colpa, gli eredi delle proteste rivendicano una preveggenza quasi miracolosa sul ventennio successivo mentre chi avversava i “no global” all’epoca li indica come incubatori di ogni successiva degenerazione.
Escludiamo subito la più caricaturale delle analisi, avanzata dal direttore del Foglio Claudio Cerasa: il popolo di Genova come progenitore dei sovranismi di destra. Basta rileggere il documento conclusivo del Social forum del 2002 a Porto Alegre, culmine di un percorso di critica alla globalizzazione iniziato con la contestazione del vertice Wto a Seattle nel 1999, per rendersi conto che in quel movimento mancava ogni riferimento alla componente etnica del popolo, che è cruciale nei sovranismi (noi contro loro, i diversi, i migranti, le élite…).
Inoltre, non c’era alcuna presunzione di autosufficienza nazionale, nell’approccio del social forum. Anzi, c’era la richiesta di trattare problemi globali con un coordinamento a livello globale, a partire dagli squilibri finanziari e del debito in valuta estera dei paesi emergenti, all’epoca tema di attualità dopo le crisi asiatiche di fine anni Novanta e il default dell’Argentina.
C’era pure una grande consapevolezza delle interconnessioni globali di scelte occidentali, come quelle che portarono al crac della Enron nel 2002, società di bokeraggio energetico assurta a simbolo di frodi contabili e manipolazione dei mercati. Sei anni dopo arriverà la versione espansa di quello scandalo, con la crisi dei mutui subprime.
Gli errori
All’opposto, chi si intesta l’eredità del social forum di Genova dice: avevamo capito tutto, le cose sono andate come avevamo previsto, gli avvertimenti non sono serviti. In realtà ci sono molte cose che quel movimento non aveva intuito.
In particolare, aveva sottovalutato l’impatto profondo della tecnologia che, più degli scambi commerciali, ha contribuito nel ventennio successivo ad accrescere tensioni sociali e disuguaglianze all’interno dell’Occidente: negli Stati Uniti, dove ci sono più dati, l’impoverimento della classe media deriva dal divario che si è ampliato tra chi ha una laurea e chi ne è privo, sono aumentati i laureati ma anche la domanda per lavoro qualificato, mentre è diminuita quella per persone poco istruite.
Nel dibattito del 2001 ci sono poi due tonalità che nel tempo sono cambiate fino a ribaltarsi nel loro opposto. Si trovava ancora in quel momento l’illusione che la globalizzazione fosse un fenomeno reversibile, che certe pratiche di lotta potessero arginarla o almeno creare delle isole riparte dalla pressione competitiva che determina.
Posizioni che in tempo di pandemia e campagne vaccinali globali sembrano strane, soprattutto perché guardavano al fenomeno da una prospettiva quasi soltanto occidentale: nel 2001 la Cina si stava affacciando al commercio internazionale con l’ingresso nella Wto, il Social forum vedeva le principali criticità nelle multinazionali americane ed europee rapaci che andavano a depredare i paesi meno sviluppati. Il tema della crisi dell’egemonia occidentale, e con essa dei valori (spesso traditi ma pur sempre rivendicati) della democrazia liberale non era ancora all’orizzonte.
L’altra cosa che è molto cambiata è il ruolo del mercato: la matrice ancora molto ideologica di una parte del movimento di Genova diffidava di tutto ciò che non fosse organizzazione dal basso e proprietà, o almeno regolazione pubblica.
I vent’anni successivi hanno dimostrato che, soprattutto a livello globale, aziende o singoli individui possono essere agenti di cambiamento più incisivi dei governi: dopo una dura campagna di boicottaggio la Nike, uno dei bersagli principali di inizio anni Duemila, è diventata tra le aziende più attente alla tutela dei lavoratori e ha imposto standard più elevati di quelli previsti dalla legge nei paesi dove opera, per timore delle sanzioni reputazionali.
La stagione dei grandi filantropi – da George Soros, a Bill Gates a Michael Bloomberg – ha visto emergere nuovi attori impegnati nel tentativo di correggere le disuguaglianze là dove gli stati sono impotenti.
Anche gli attivisti contro la crisi climatica oggi chiedono agli Stati di coordinarsi nella regolazione soprattutto per definire un contesto competitivo che spinga le grandi aziende private a cambiare tecnologie, prezzi ed emissioni. Ma, in ultima analisi, è il mercato a determinare il cambiamento.
I “no global” erano in realtà il seme fruttifero di un’opinione pubblica globalizzata e consapevole che, comunque, aveva al suo interno una pluralità di analisi molto più ricca dei documenti della stessa epoca di istituzioni come il Fondo monetario internazionale che ai dilemmi sollevati dalla globalizzazione rispondevano con una lista di “buone pratiche” adatte a tutti che avrebbero garantito prosperità e progresso.
La stagione dei sovranismi è stata prodotta dall’aver rimosso per troppo tempo le domande sollevate da piazze come quella di Genova, col risultato che poi sono arrivate risposte pericolose e sbagliate da demagoghi e populisti.
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