Molto tristi i commenti relativi a una sorta di appartenenza nazionale secondaria derivante dal colore della pelle, da alcuni tratti somatici. Una logica che prevede atlete di serie A, ma cittadine di serie B perché, insomma, non assomigliano a noi nati in questo paese da genitori entrambi di questo paese
Nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi parigine, sembra che un rapper abbia riscritto la triade rivoluzionaria Liberté Égalité Sororité invece di Fraternité. Gli illuministi francesi, forse ancor meno delle loro controparti scozzesi, non erano sicuramente suprematisti bianchi e con il loro Fraternité si riferivano piuttosto alla solidarietà, allo spirito di collaborazione, non solo nazionale, anzi cosmopolita.
Comunque, quella triade è, lo scrivo con le parole che Piero Calamandrei usò per la Costituzione italiana, e rimane «una rivoluzione promessa». A sua volta, quella rivoluzione è tutt’altro che solo politica. Vuole essere sociale e culturale. Lo spirito olimpico ne è una manifestazione di enorme, spesso sottovalutata, importanza. Uomini e donne competono liberamente per la conquista di medaglie che ne attestano la loro eccellenza. Lo fanno con le loro capacità e qualità personali, ma anche in rappresentanza di una nazione, di una patria.
Che tristezza la pur comprensibile cancellazione dell’appartenenza nazionale come condizione di ammissione di atleti/e eccellenti cittadini di paesi riprovevoli! Ancora più tristi e assolutamente stigmatizzabili, i commenti relativi ad una sorta di appartenenza nazionale secondaria derivante dal colore della pelle, da alcuni tratti somatici. Atlete di serie A, ma cittadine di serie B perché, insomma, non assomigliano a noi nati in questo paese da genitori entrambi di questo paese. Non varrebbe la pena discutere di questo sottile razzismo da bar e da bulletti, se non fosse che in gioco è la costruzione e il funzionamento delle società e dei sistemi politici che vorremmo.
Insomma, la patria è questione di colore e di sangue, di geni paterni e materni, con spudorata franchezza, di razza? Quelle cittadine e cittadini neri potranno correre, saltare, vincere da soli o in squadra, ma il loro patriottismo rimane dubbio, è solo acquisito, talvolta opportunistico? Ius sanguinis vince. Talvolta, è un passo avanti, ma i veri patrioti lo considerano un cedimento, vince lo ius soli: essere nati/e nel Bel Paese.
Da tempo sappiamo che patria non è soltanto il luogo di nascita dei nostri antenati, dei nostri padri e madri: la madrepatria. Per molti è il luogo dove hanno scelto di andare a vivere, di portare le loro famiglie, di fare crescere i figli/e. Capovolgendo il classico detto latino ubi patria ibi libertas, patria diventa dove c’è libertà di lavoro, di istruzione, di scelte, di partecipazione. Dove è possibile cercare di ampliare e diffondere gli spazi di libertà e di opportunità. Dove è possibile, non sacrificare, ma mettere in competizione i propri valori, i propri stili di vita.
Giunti a questa considerazione non bisogna, però, dimenticare che esistono valori non negoziabili in termini di libertà personali, di eguaglianze (sì, plurale) davanti alla legge e di opportunità, di associazionismo politico e sociale. Al proposito, almeno in parte, per sfuggire alla patria di sangue e suolo, in Germania è stato proposto, già prima di Habermas, che lo ha poi variamente teorizzato, il patriottismo costituzionale: adesione ai principi e ai valori ella Costituzione democratica.
(Com)patrioti degni di apprezzamento sono, dunque, a prescindere dalla pelle e dal luogo di nascita, tutti coloro che rispettano la Costituzione democratica, agiscono secondo le sue regole e procedure, perseguono i valori sui quali si fonda quella Costituzione.
Se vogliono cambiare i valori, dovranno osservarne le procedure. Chi concorda con questo patriottismo, non può in nessun modo accettare la tesi dell’esistenza di democrazie illiberali che si reggono sulla cancellazione dei diritti delle persone. Un luogo senza libertà e senza diritti non può mai essere definito patria. Il nome che merita è caserma.
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