I dazi di Biden aprono un nuovo capitolo della guerra commerciale con la Cina. Ma Pechino non si limita a pratiche commerciali sleali, e ha adottato un modello di politica industriale innovativo ed efficiente. Gli Stati Uniti e soprattutto l’Europa dovrebbero giocare sullo stesso terreno e imparare a guardare al lungo periodo
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha subito una nuova accelerazione questa settimana quando, con un occhio alle elezioni di novembre, l’amministrazione americana ha adottato una serie di misure protezionistiche.
Il presidente Joe Biden ha annunciato martedì scorso un sostanziale aumento dei dazi doganali su un’ampia gamma di prodotti in provenienza dalla Cina, dalle auto elettriche ai pannelli solari. In particolare, sulle autovetture elettriche i dazi sono quadruplicati, dal 25 al 100 per cento.
Lo scopo di quest’aumento dei dazi, secondo la Casa Bianca mirato, è di consentire alle imprese americane impegnate nella transizione ecologica di recuperare il ritardo che si è accumulato negli ultimi anni rispetto ai concorrenti cinesi; un ritardo che l’amministrazione americana ritiene dovuto a pratiche commerciali scorrette da parte del governo cinese. Una valutazione prevalente anche in Europa, dove la Commissione ha avviato nell’ottobre scorso un’inchiesta su possibili pratiche anti-competitive e sovvenzioni illegali al settore delle auto elettriche.
Una nuova politica industriale
In realtà le cose sono più complesse. Paolo Gerbaudo ha analizzato l’ascesa del settore automobilistico cinese ricordando lo “shock giapponese”, l’arrivo alla fine degli anni Settanta sui mercati statunitense ed europei dei costruttori giapponesi che, oltre a veicoli di qualità a prezzi stracciati, avevano portato pratiche manageriali innovative e avviato l’epoca post-fordista nel settore automobilistico.
Gerbaudo sostiene in modo convincente che le radici dello sviluppo recente del settore dei veicoli elettrici in Cina vanno ben oltre i pur generosi sussidi, configurando un nuovo approccio alla politica industriale.
Lo sviluppo dell’industria automobilistica (e non solo) si è fondato su un ritorno della produzione verticalmente integrata sia a livello di impresa sia di settore. Dopo decenni di frammentazione, in cui si sono allungate le catene del valore a dismisura delocalizzando ed esternalizzando parti del processo produttivo, le imprese automobilistiche cinesi sono tornate al passato (Gerbaudo parla di neo-fordismo) riprendendo il controllo di tutto il processo produttivo fino ad arrivare allo sfruttamento diretto delle miniere di litio e delle compagnie di cargo.
Questo ha consentito di controllare meglio i processi produttivi e di indirizzare le risorse e gli investimenti in ricerca verso le fasi più problematiche del processo, i colli di bottiglia, accelerando l’innovazione e abbattendo i costi (approfittando anche di un costo del lavoro che per il momento rimane sostanzialmente più basso che nei paesi avanzati e di processi produttivi ad alta intensità di lavoro).
Guardare al lungo periodo
Queste strategie sono state assecondate e incentivate da una politica industriale che fin dai piani quinquennali dei primi anni Duemila (!) aveva messo le tecnologie verdi tra i settori strategici, che inonda di finanziamenti la ricerca di base e applicata e che già dal 2015, con il piano “Made in China 2025”, ha puntato a sviluppare le filiere del manufatturiero in patria.
Detto altrimenti, la Cina si è posta il problema dell’“autonomia strategica” con almeno un lustro di anticipo rispetto a Europa e Stati Uniti. Con la pandemia e con le recenti tensioni geopolitiche, queste scelte si sono rivelate preveggenti e oggi la Cina ne coglie i frutti.
Infine, Gerbaudo evidenzia il ruolo dello “stato imprenditore” che, nonostante le ben note inefficienze ha garantito sostegno alle imprese, importanti sussidi che a volte hanno consentito di operare in perdita attirandosi i fulmini (in questo caso giustificati) di Europa e Stati Uniti.
Insomma, la folgorante ascesa della Cina nelle industrie verdi non è solo dovuta a pratiche anticoncorrenziali, che sicuramente esistono e vanno sicuramente stigmatizzate. La leadership cinese ha colto l’occasione della transizione ecologica per una profonda riorganizzazione del proprio modello produttivo e della politica industriale che sembra molto più adatta di quella dei propri concorrenti a trarre vantaggio della rivoluzione tecnologica in corso e a proteggere il paese in un contesto internazionale sempre più instabile.
Per questo desta perplessità la scelta dell’amministrazione Biden di reagire con misure protezioniste. Certo, la si potrebbe vedere come un tassello aggiuntivo della strategia per lo sviluppo di un’industria verde iniziato con l’Inflation Reduction Act (IRA) del 2022, un vasto piano di incentivi e di stimolo alla domanda di tecnologie verdi volto ad approfittare della transizione ecologica per reindustrializzare gli Stati Uniti. I dazi, in teoria, dovrebbero facilitare questo sforzo proteggendo i profitti dei produttori domestici.
Ma in realtà il pregio principale dell’IRA è quello di puntare all’espansione dei mercati creando un ecosistema favorevole alla transizione e allo sviluppo industriale. E le tariffe con ogni probabilità ostacoleranno la creazione di questo ecosistema. Martin Sandbu nota sul Financial Times che una penetrazione di veicoli elettrici cinesi nel mercato americano (soprattutto nel segmento a basso costo) porterebbe ad una maggiore domanda di infrastrutture, stazioni elettriche, domanda di meccanici specializzati nell’elettrico e via di seguito. Tutte cose che a loro volta porterebbero ad una maggiore domanda per i produttori statunitensi. I dazi, insomma, potrebbero rivelarsi controproducenti portando a prezzi maggiori, minore domanda e un rallentamento della trasformazione industriale.
E l’Europa?
E l’Europa in tutto questo? Il quadro del vecchio continente è particolarmente preoccupante. Perché anche se i dazi di Biden sono probabilmente la risposta sbagliata, rimane vero che gli Stati Uniti, come la Cina, hanno con decisione abbracciato l’idea che la transizione ecologica è un volano per la crescita e non un costo.
Solo da noi continua il surreale dibattito sul “bagno di sangue” e la miope tentazione di posticipare la transizione per approfittare delle ultime rendite date dalle vecchie tecnologie. L’Europa deve decidere se vuole competere sul terreno dell’innovazione e della transizione (e nel qual caso mettere mano al portafogli) o continuare a piangere sulle pratiche sleali dei nostri concorrenti.
Se si decidesse di lanciare un piano di investimenti e incentivi, se si decidesse, come facemmo negli anni Ottanta con il Giappone, di importare il nuovo modello produttivo che sembra funzionare così bene in Cina, la battaglia non sarebbe necessariamente perduta. Anche perché non tutto luccica a Pechino: gli innegabili successi cinesi non devono far dimenticare un modello di sviluppo squilibrato, l’eccesso cronico di risparmi che le autorità cinesi non riescono ad eliminare, un mercato domestico asfittico, gli sprechi colossali di risorse finanziarie che sono abbondanti ma non infinite. Insomma, la gara è appena iniziata e si può ancora partecipare dignitosamente. Basta iniziare a correre.
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