- La Giornata internazionale dei diritti della donna è, ogni anno, l’occasione per portare allo scoperto le contraddizioni strutturali, le urgenze politiche, ma anche la rabbia delle “senza-potere”.
- Come nell’8 marzo del 1945, anche oggi c’è un paese da ricostruire. E prima ancora, ci sono centinaia di migliaia di donne che vanno protette dalla catastrofe della crisi, dalla minaccia della povertà.
- Non si tratta di donne che «escono» dal mercato del lavoro, ma di donne che sono espulse, cacciate fuori, a causa delle diseguaglianze profonde che attraversano l’intera società, dalla famiglia al mondo produttivo.
«La vera ragione dell’opposizione all’eguaglianza delle donne nello Stato è che gli uomini non sono disposti a riconoscerla nelle loro case»: così scriveva Elizabeth Cady Stanton, figura leader del primo femminismo statunitense nell’Ottocento.
Il problema del rapporto tra donne, politica, potere ci accompagna da secoli e, come ha mostrato il dibattito recente sulla composizione di genere del governo Draghi, è lontano dall’essere risolto.
Le parole di questa madre del movimento suffragista ci ricordano, però, che il cammino che va dal voto femminile all’ingresso delle donne nelle istituzioni è solo uno dei molti fronti della battaglia per la piena cittadinanza.
Perché le diseguaglianze tra i generi permangono nelle case, nei luoghi di lavoro, nell’uso degli spazi pubblici, nei media, nella produzione dell’immaginario, e si intrecciano con altre grandi diseguaglianze, come quelle di “classe” o di “razza”.
La Giornata internazionale dei diritti della donna è, ogni anno, l’occasione per portare allo scoperto le contraddizioni strutturali, le urgenze politiche, ma anche la rabbia delle “senza-potere”.
L’8 marzo non è, come vorrebbe un mito diffuso, una storia di vittime, la commemorazione delle operaie uccise nell’incendio di una fabbrica di New York nel 1908. È invece il risultato di molteplici spinte e avvenimenti, del protagonismo delle donne che, a partire dall’inizio del Novecento, attraversò il movimento operaio, i partiti socialisti e comunisti, per estendersi alla società intera.
In Italia, la prima vera celebrazione si tenne nel 1945, nelle zone liberate dal nazifascismo. «Un giorno di lotta per salvarsi dalla fame, per difendere il pane ai nostri figli, alle nostre famiglie, per difendersi dal freddo e dalla miseria», scriveva Noi Donne, l’organo dei Gruppi di difesa della donna; ma anche «un giorno di impegno da parte nostra e di speranza per un domani di libertà e di progresso». C’era un intero paese da ricostruire.
Anche in questo 8 marzo, che viene dopo un anno di emergenza pandemica, c’è un paese da ricostruire. E prima ancora, ci sono centinaia di migliaia di donne che vanno protette dalla catastrofe della crisi, dalla minaccia della «miseria». Non è un’esagerazione, perché i dati Istat parlano di un aumento drammatico della povertà assoluta, causato primariamente dalla perdita di occupazione femminile.
Le donne con figli, in particolare, sono state gravate in misura sproporzionata dal peso delle chiusure perché, rivelano le indagini sociali, sono lasciate largamente sole a occuparsi di figli e anziani non autosufficienti.
Non è bastata una pandemia a mutare i comportamenti di compagni e padri, verso una maggiore condivisione dei carichi di cura. Elizabeth Cady Stanton aveva visto lontano.
Non si tratta perciò di donne che «escono» dal mercato del lavoro, come si legge spesso, ma di donne che sono espulse, cacciate fuori, a causa delle diseguaglianze profonde che attraversano l’intera società, dalla famiglia al mondo produttivo. Che questa Giornata serva, più che mai, ad alzare la voce.
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