- Ogni volta che lanciamo un messaggio in rete, i nostri discorsi escono dalla nostra bocca già letti, già confutati, pre-interpretati dai pregiudizi.
- La settimana scorsa ho raccontato dello stupore di mia figlia alla scoperta che nella finale di Champions League non giocano le femmine: apriti cielo, sembrava che volessi cambiare le regole del calcio mondiale.
- C’è una diffusa paranoia che tutto sia propaganda progressista, anzi "woke". Come se fosse woke ogni tentativo di riflettere sull'educazione di una bambina in una società che cambia.
Mia figlia, quattro anni: «0,1,1,2,3,5,8,13,21,34...»
«Guarda che non si conta mica così».
«Ma papà, è la serie di Fibonacci!».
La maledizione che pesa su di me fin dalla più giovane età è che nessuno capisce il mio umorismo. Ad esempio quando ho pubblicato il tweet qua sopra, più di un anno fa, sono stato sommerso da commenti che mi accusavano di essere un mitomane: ecco qua, è arrivato Quentin Inventino! A me pareva abbastanza improbabile (e quindi surreale) che una bambina conoscesse la serie di Fibonacci, e con questo intendevo fare la parodia di quei genitori che sui social inventano le storie più assurde per convincerci che i loro figli sono dei piccoli geni. Ma come spesso accade la parodia è stata presa sul serio.
Perché accade? Forse perché quella parodia non era poi tanto lontana dalla realtà della mitomania contemporanea. E poi perché di tutta evidenza ogni volta che lanciamo un messaggio in rete troviamo già pieno un serbatoio di aspettative feroci. I discorsi escono dalla nostra bocca già letti, già confutati, pre-interpretati dai pregiudizi.
Polemizzare
La settimana scorsa ho pubblicato su queste pagine un articolo in cui raccontavo la delusione di mia figlia seienne quando ha scoperto che la finale di Champions League la giocano solo i maschi – non senza averglielo letto prima per approvazione. Lei era un po’ preoccupata che qualcuno potesse prenderla in giro, da cui il titolo ironico che ho dato alla rubrica: “babyshaming”, in riferimento al bodyshaming del lessico liberal. Io l’ho rassicurata dicendole che ormai i giornali non li legge più nessuno, semmai ringrazi che non le faccio fare i balletti su TikTok.
Avevo fatto male i miei calcoli, perché di tutta evidenza c’è ancora qualcuno che li legge, o perlomeno legge i titoli. Qualche giorno dopo sono andato a vedere i commenti che aveva suscitato l’articolo in rete. Pur essendo abituato alle polemiche, sono comunque rimasto scosso dalla gratuita aggressività che persone apparentemente normali erano state in grado di riversare in reazione a un banale aneddoto familiare. Ecco una cosa che farei davvero fatica a spiegare a mia figlia: perché delle persone adulte ci tengono a polemizzare sulle opinioni di una bambina e gli interrogativi di un padre.
Presunzione di mitomania
Ho realizzato che il problema di usare la vita vissuta come materiale di scrittura è che nessuno crede alla verità degli aneddoti. Di fronte a questa “presunzione di mitomania” c’è poco da fare. Tanto varrebbe inventarseli davvero. Raccontare la verità pura e semplice non ti mette al riparo dai processi alle intenzioni.
Ma il bello della verità, rispetto alla finzione, e che non ha nessuna morale. Semmai rimette in discussione le nostre convinzioni. Come in un laboratorio, l’esperimento è davvero riuscito solo quando falsifica la teoria. Un bambino è una macchina che distrugge le certezze, questa è un po’ l’idea della rubrica che state leggendo.
Su Dzan
Da quei commenti ho capito anche un’altra cosa: che se racconti un fatto il lettore si aspetta che tu stia cercando di propinargli una morale. Ci racconti che tua figlia è delusa? Allora vuoi cambiare le regole del calcio. Forse i commentatori ignorano quante volte in una giornata una bambina di sei anni è delusa. Se davvero dovessimo cambiare l’intera società ogni volta solo per venirle incontro, non solo bisognerebbe fare giocare le donne nella finale di calcio maschile, ma dotare tutte le giocatrici di un unicorno e sostituire il pallone con una torta-gelato. La morale di un aneddoto potrebbe essere, di fatto, una non-morale.
Perché non ci sono donne nella finale di Champions? Perché esistono delle differenze, sia fisiche sia culturali, tra maschi e femmine: e crescendo impariamo a conoscerle, sorprendendocene ogni volta. Questa differenziazione funzionale è un elemento essenziale in tutte le civiltà umane ma non va da sé, ed è per questo che affiora sia nelle domande ingenue dei bambini sia nei dibattiti sul genere.
In mezzo ai commenti ho trovato anche un guizzo di genio. Poiché io raccontavo ironicamente i contorti percorsi mentali che la banale domanda di una bambina mette in moto nella testa di un padre, un lettore segnalava che la partita che avremmo voluto vedere era trasmessa su DZan. Cioè la piattaforma Dazn ai tempi del ddl Zan. Fantasia, intuizione, decisione, velocità di esecuzione.
Colpisce tuttavia anche qui la diffusa paranoia che tutto sia propaganda progressista, anzi “woke”. Come se fosse woke ogni tentativo di riflettere sull’educazione di una bambina in una società che cambia. Una paranoia che avvelena il dibattito tanto quanto lo zelo neo-puritano di certi attivisti.
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