- Da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, si dice, Ratzinger non avrebbe condiviso l’atteggiamento accomodante di papa Wojtyla verso la questione degli abusi
- Ratzinger, però, è stato per ventiquattro anni il braccio destro del papa polacco, esecutore fedelissimo di ogni sua direttiva, comprese quelle che hanno riguardato il contrasto agli abusi.
- È vero però che nel suo pontificato, anche e forse soprattutto per effetto della crescente indignazione dell’opinione pubblica mondiale, la strategia della minimizzazione ha lasciato il posto alle prime impacciate ammissioni di responsabilità per i crimini commessi.
Tra i meriti da molti attribuiti a Joseph Ratzinger c’è quello di aver cambiato l’atteggiamento della Chiesa circa il contrasto agli abusi clericali.
Da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, si dice, Ratzinger non avrebbe condiviso l’atteggiamento accomodante di papa Wojtyla verso l’abusatore seriale Marcial Maciel Degollado né, più in generale, la posa difensiva fatta assumere all’istituzione dal pontefice polacco sulla questione degli abusi, sostanzialmente assimilati a pretesti per attaccare la reputazione e il ruolo sociale della Chiesa cattolica.
Una volta divenuto pontefice, Benedetto XVI avrebbe iniziato a rendere più difficile la vita ai sacerdoti colpevoli di delitti sessuali, inaugurando quella strategia che poi avrebbe condotto alla “tolleranza zero” di papa Bergoglio. Cosa c’è di vero in questa ricostruzione e cosa di fantasioso?
La linea sugli abusi
Lasciando da parte le accuse rivolte allo stesso Ratzinger di aver coperto alcuni preti abusatori al tempo in cui era vescovo di Monaco, possiamo dire che non sapremo mai se davvero Ratzinger abbia dissentito dalle discutibilissime scelte di fondo di Wojtyla sugli abusi sessuali.
Non lo sapremo perché l’ex papa appena scomparso non vi ha mai fatto cenno, né credo che ne troveremo traccia in qualche memoriale scovato in cantina.
Quel che sappiamo per certo è che egli è stato per ventiquattro anni il braccio destro del papa polacco, il suo primo consigliere, il suo teologo di punta e l’esecutore fedelissimo di ogni sua direttiva, comprese quelle che hanno riguardato il contrasto agli abusi.
È vero invece che nel suo pontificato, anche e forse soprattutto per effetto della crescente indignazione dell’opinione pubblica mondiale, la strategia della minimizzazione ha lasciato il posto alle prime impacciate ammissioni di responsabilità per i crimini commessi e alla punizione severa di alcuni abusatori ridotti allo stato laicale.
Il significato di queste novità può essere facilmente dedotto dalla lettura di un documento straordinario che Benedetto XVI ci ha consegnato: le sue note sugli scandali sessuali nella Chiesa Cattolica redatte nel 2019 a margine dell’assemblea ecclesiale indetta da papa Francesco per affrontare il tema degli abusi nel cattolicesimo.
In quelle pagine Ratzinger identificava la genesi della pedofilia clericale negli sconvolgimenti sociali degli anni Sessanta, nell’ondata libertaria che ha investito il mondo occidentale e la stessa Chiesa cattolica in quel decennio.
Abusi di fede
Per il pontefice emerito quella emersa in quel periodo era stata una catena di disgrazie: si era iniziato da un programma di educazione sessuale varato da una ministra socialdemocratica tedesca e si era proseguito con il dilagare della pornografia, con le stravaganze nell’abbigliamento giovanile, con la libertà sessuale incondizionata che era sfociata nella violenza provocata dalla selvaggia eccitazione degli animi, dalla ferinità primordiale scatenata dall’abbattimento di ogni norma morale, comprese quelle che proibiscono di fare sesso con un minorenne.
Benedetto scrive che nei seminari cattolici si sarebbero formati a quel tempo dei «club omosessuali» all’interno dei quali sarebbe venuta meno qualsivoglia continenza sessuale, ogni forma di castità.
L’impunità degli eversori della tradizione e dell’ordine sociale sarebbe poi stata assicurata dal diffondersi anche dentro la Chiesa di una diabolica “cultura garantista”, che avrebbe reso impossibile all’istituzione l’emissione di quelle condanne severe che forse avrebbero potuto arrestare la diffusione del fenomeno.
Nel caso del sesso dei preti con i minori, ad essere calpestati non sono stati, secondo il papa emerito, i diritti di questi ultimi, la loro integrità fisica e psichica, quanto piuttosto il «bene prezioso della fede».
Le sofferenze psichiche delle vittime non vengono nel documento nemmeno menzionate, non paiono avere avuto alcun rilievo. Riferendo un colloquio avuto con una giovane ex chierichetta abusata dal sacerdote che accompagnava all’altare, Benedetto si mostrava preoccupato del fatto che la ragazza non avrebbe più potuto udire le parole «Questo è il mio corpo che è dato per te» senza pensare al suo violentatore che le pronunciava nel momento dell’abuso.
Era il rischio che quella ragazza perdesse la fede a preoccupare il papa scomparso non la ferita psichica conseguenza dell’abuso.
In definitiva, il male, e quindi anche la pedofilia, nascevano per Ratzinger dal rifiuto dell’amore di Dio, dalla secolarizzazione, dal rigetto della tradizione e dal dilagare del relativismo morale, che tutto giustifica e tutto assolve.
Senza riforme
L’ultima considerazione riguarda la Chiesa. C’è il rischio, scriveva Ratzinger, che qualcuno, nel desiderio di porre rimedio alla crisi degli abusi, si sia messo in testa di riformare la Chiesa, di abbandonare la tradizione, di introdurre delle novità strutturali nell’organizzazione del cattolicesimo.
Per Ratzinger si tratta di una suggestione che viene dal demonio, di una tentazione da respingere con fermezza assoluta.
La Chiesa così come si presenta oggi è santa e indistruttibile, è lo strumento con cui Dio ci salva.
Per preservarla sarà sufficiente scacciare i traditori, mettere al bando i reprobi e sperare che la società torni quella di ieri, che sulla sessualità scenda il silenzio, che la sodomia venga condannata come merita e che vengano ripristinati il decoro e la smarrita decenza degli antichi costumi.
L’analisi di Benedetto era dunque chiarissima: per arginare il fenomeno tutto contemporaneo degli abusi la Chiesa deve resistere a ogni ipotesi di cambiamento, chiudersi sempre più in sé stessa, difendere i suoi valori di sempre, tra i quali il celibato del clero e la condanna senza mezzi termini dell’omosessualità, dal mondo depravato che la circonda e la assedia.
E punire con severità i preti pedofili, le mele marce, veri e propri infiltrati, agenti di una società permissiva e lassista che ha smarrito la bussola dei valori morali e che disconosce l’importanza dell’astinenza e della castità.
Si tratta di una terapia che potremmo definire forcaiola o inquisitoriale che invoca il pugno duro verso i singoli che sbagliano ed esime la Chiesa, i suoi sistemi formativi, la sua concezione della sessualità e dell’amore tra le persone da ogni responsabilità nella generazione dei guai che la affliggono.
E’ l’esatto contrario della via indicata dalle tante commissioni di inchiesta sugli abusi clericali che, già a partire dagli anni del pontificato di Benedetto, hanno raccomandato alla Chiesa profondi interventi strutturali e una riflessione senza pregiudizi sulla sua costituzione e sui suoi assetti culturali e organizzativi.
Agli occhi dei vertici romani dell’istituzione (e anche a quelli dell’italiana Cei) l’eredità di Ratzinger centrata sulla punizione dei singoli e l’intangibilità della Chiesa sembra oggi rappresentare la strategia più convincente. Ma il futuro è aperto e la crisi degli abusi è forse appena iniziata.
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