Il rapporto Amnesty International su 21 stati europei rivela uno schema di leggi repressive, uso eccessivo o non necessario della forza, arresti e procedimenti arbitrari, restrizioni ingiustificate
In tutta Europa il diritto di manifestare pacificamente è sotto attacco: le autorità statali stigmatizzano, criminalizzano e reprimono sempre più le persone che protestano.
Lo afferma un rapporto di Amnesty International che, analizzando la situazione in 21 stati europei, rivela uno schema di leggi repressive, uso eccessivo o non necessario della forza, arresti e procedimenti arbitrari, restrizioni ingiustificate o discriminatorie nonché l’uso crescente di tecnologie di sorveglianza invasive, che portano a una sistematica erosione del diritto di protestare.
Impunità e sorveglianza
Il rapporto evidenzia un uso diffuso, eccessivo e/o non necessario della forza da parte delle forze di polizia contro chi manifesta pacificamente, compreso l’uso di armi meno letali. In Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Serbia, Slovenia e Svizzera le forze di polizia hanno impiegato impunemente forza eccessiva anche contro persone minorenni.
Il rapporto elenca lesioni gravi e talvolta permanenti, tra cui ossa o denti rotti (Francia, Germania, Grecia, Italia), la perdita di una mano (Francia) o di un testicolo (Spagna), slogature, danni agli occhi e traumi cranici gravi (ancora Spagna).
Si è registrato un notevole aumento dell’uso dei sistemi di riconoscimento facciale: attualmente sono utilizzati dalle forze di polizia in undici degli stati esaminati e altri sei pianificano di introdurli.
Demonizzare la protesta
In diversi stati, l’identità percepita delle persone che organizzano e partecipano alle proteste, così come le cause per cui si mobilitano, influenzano le restrizioni imposte dalle autorità. Ad esempio, in Germania manifestazioni per commemorare la Nakba palestinese sono state vietate perché la polizia ha ritenuto le persone partecipanti come «propense alla violenza».
La retorica dannosa da parte dei pubblici ufficiali è comune nei 21 stati esaminati: le persone che protestano vengono etichettate in vari modi, tra cui «terroristi», «criminali», «agenti stranieri», «anarchici» ed «estremisti».
Come nel caso, ad esempio, della legge 6/2024, introdotta in Italia a gennaio, che inasprisce le sanzioni per danneggiamento e deturpamento di beni culturali o paesaggistici, andando a criminalizzare chi protesta pacificamente per chiedere giustizia ambientale e che è stata presentata dal ministero dei Beni culturali come iniziativa volta a contrastare gli “eco-vandali”.
E l’Italia?
L’Italia, appunto. Nei mesi precedenti alla pubblicazione del rapporto di Amnesty International, le autorità hanno disperso diverse manifestazioni pacifiche, in alcuni casi ricorrendo a un uso eccessivo o non necessario della forza, come il 23 febbraio 2024 a Pisa e Firenze.
Nonostante l’articolo 17 della Costituzione affermi un principio generale di presunzione a favore delle assemblee pubbliche, prevedendo un mero preavviso alle autorità competenti, l’articolo 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps), risalente al 1931, consente alle autorità di vietare una manifestazione sulla base, tra le varie ragioni, di una mancata notifica.
La discrezionalità interpretativa applicata dalle questure ha permesso nel tempo di trasformare il preavviso obbligatorio in uno strumento repressivo, fornendo alle autorità il pretesto per ostacolare, limitare o reprimere riunioni pacifiche di cui non viene data notifica, inclusa la dispersione attraverso l’uso della forza o di armi meno letali.
Le autorità italiane impongono sempre più spesso misure amministrative nei confronti di chi manifesta pacificamente anche attraverso la disobbedienza civile.
Si tratta in particolare del “foglio di via” obbligatorio (divieto di accesso alla città, che va da sei mesi a quattro anni) o del più recente Daspo urbano (divieto di accesso a specifiche aree cittadine, che va da 48 ore a due anni).
Particolarmente allarmanti sono poi alcune delle disposizioni del disegno di legge 1660, il cosiddetto ddl Sicurezza, attualmente in discussione alla Camera.
L’articolo 11, per esempio, andrebbe a incidere sul trattamento dei cosiddetti “blocchi stradali”, utilizzati soprattutto dagli attivisti climatici come strumento di disobbedienza civile pacifica. Il blocco stradale con il proprio corpo, che attualmente costituisce un illecito amministrativo, diverrebbe un delitto e verrebbe punito con reclusione da sei mesi a due anni qualora effettuato da più persone.
© Riproduzione riservata