- Come dichiara Vladimir Putin – ma con altre parole anche l’occidente – sempre di più la guerra in corso appare come una guerra globale, o almeno di grandi spazi e grandi visioni del mondo (occidente/oriente, democrazia/dittatura...).
- Da parte russa l’ambiguità è affrontata da un lato accentuando il carattere globale dello scontro e dall’altro negando che si tratti di una guerra inter-nazionale (è una operazione speciale che mira a liberare un popolo fratello).
- Dal lato occidentale, specularmente con la visione di Putin sentiamo l’aggressione a un popolo sovrano che confina con l’Europa un vulnus all’occidente (piaccia o non piaccia, non così era stato con la Cecenia, che non era democrazia indipendente).
Come dichiara Vladimir Putin – ma con altre parole anche l’occidente – sempre di più la guerra in corso appare come una guerra globale, o almeno di grandi spazi e grandi visioni del mondo (occidente/oriente, democrazia/dittatura...). Per il momento, sul terreno la guerra ha però l’aspetto tradizionale di una guerra tra stati, tra Russia e Ucraina.
Il nesso tra le due guerre è assai ambiguo e instabile. Da parte russa l’ambiguità è affrontata da un lato accentuando il carattere globale dello scontro e dall’altro negando che si tratti di una guerra inter-nazionale (è una operazione speciale che mira a liberare un popolo fratello, a denazificare una provincia dell’impero; solo l’occidente la sta globalizzando).
Dal lato occidentale, specularmente con la visione di Putin sentiamo l’aggressione a un popolo sovrano che confina con l’Europa un vulnus all’occidente (piaccia o non piaccia, non così era stato con la Cecenia, che non era democrazia indipendente). Per questo, e perché l’Ucraina resiste in quanto ampiamente sostenuta e rifornita di armi, non possiamo più dirci che il nostro sostegno è un fraterno aiuto a un popolo aggredito (cosa che può suscitare perplessità: quali costi, quali gli effetti? fino a quando? a qual prezzo?). Il nostro sostegno è decisivo per la resistenza ucraina, nonché per l’Occidente. Il che significa che la Nato, e con la Nato anche l’Italia, è in guerra, anche se è una strana guerra per procura.
Fin’ora vigono le convenzioni per le quali inviare armi fuori dai confini non è guerreggiare, e d’altra parte l’Ucraina è in guerra con la Russia, ma non deve colpire (con le nostre armi) obiettivi in territorio russo. Convenzioni assai fragili. Mi ricordano l’intervento nella guerra civile spagnola (in quel caso inviammo anche uomini, lo so): l’insorgenza reazionaria contro una repubblica era avvertita come un antefatto e mobilitò l’Europa. Oggi in Spagna, si disse, domani in Italia.
L’Europa in guerra
Dunque siamo in guerra, prendiamone atto. Certo, possiamo ritrarcene, e rompere l’alleanza europea. Valutando costi e ricavi. Nel 1914 l’Italia si dichiarò neutrale, da un lato perché si sentiva impreparata a combattere, dall’altro perché, come disse Giolitti, dal non entrare in guerra si poteva ricavare “parecchio” dagli Imperi centrali.
Anche oggi avremo chi può trattare con Putin, valutando benefici e convenienza. Matteo Salvini è da questo punto di vista un interlocutore ideale; grande e dichiarato estimatore di Putin, nessuno può pensare che il suo interrogativo sulla convenienza delle sanzioni sia sincero. Il suo è un atto politico al quale si deve chiarezza.
Dobbiamo intanto continuare a documentare ogni giorno i danni recati alla Russia dalle sanzioni, in che modo la Russia li fronteggia, con quali prospettive, con quali tempi. E poiché le sanzioni non sono solo “punitive”, ma sono volti a non finanziare l’aggressione, e se può esser vero che la forte contrazione degli acquisti non ha ridotto gli introiti a causa dell’aumento dei prezzi (anche questo va documentato scrupolosamente), l’interruzione completa dell’erogazione, minacciata da Putin, dovrebbe fermare i flussi di pagamenti. È così? Lo si documenti.
Ma se, una volta fatte le nostre valutazioni, non scegliamo il passo indietro, dobbiamo essere consapevoli di essere in guerra, e mobilitare. Per nostra fortuna è una mobilitazione (almeno per ora) non umana e militare, bensì economica e culturale. Una mobilitazione implica cambiamenti di vita: prelievo di risorse, sacrifici, propaganda, ad esempio nelle scuole.
Il primo tra i sacrifici sembra riguardare i disagi derivanti dal taglio del gas e del petrolio, con l’apparato industriale prossimo al collasso e l’inverno che si avvicina. Gli italiani – come hanno dimostrato nella pandemia – hanno grandi capacità di mobilitazione civica. Ma devono esser messi di fronte alla realtà dei fatti e al peso delle scelte. In fondo, sottovoce lo aveva detto Draghi: vogliamo la pace o più aria condizionata? È una scelta. Se optiamo per la pace, occorre spegnere l’aria condizionata, o il riscaldamento a gas. Gli italiani possono farlo.
Occorre prospettare agli italiani il taglio completo dei rifornimenti russi, anche unilaterale, anche se poi non sarà necessario farlo, come ci auguriamo. L’importante è non subire quotidianamente annunci e sospensioni a singhiozzo. Annunci e sospensioni che sono un “ricatto”, ha dichiarato von der Leyen. Quasi fosse un diritto degli europei di ricevere gas da un paese col quale sono in guerra. Qui si pone un problema storico di grande spessore: il nesso tra fonti di energia, assetti internazionali e democrazia. Ne ho scritto giorni fa sul Foglio, parlando di Piombino.
Immaginiamo Germania e Usa che nella seconda guerra mondiale commerciano in acciaio. Impensabile. Non solo perché una guerra mira alla sconfitta del nemico, e non lo sovvenziona con i commerci. Ma anche perché nell’esempio fatto ciascuno dei belligeranti produceva il proprio acciaio. Oggi, noi e l’Europa tutta non produciamo a sufficienza gas e petrolio.
Questo è un punto nodale, che appunto riguarda il nesso tra modernità, materie prime e dipendenza dall’estero. Cambiare fornitori è solo una soluzione provvisoria. Nessuno dei paesi ai quali ci rivolgiamo – esclusi gli Stati Uniti – è un paese democratico di tipo occidentale. Ci sentiamo più sicuri nelle mani dell’Algeria o del Mozambico?
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