L’Italia è uno dei paesi europei in cui il lavoro è stato maggiormente indebolito, con perdita di diritti, sicurezza, potere di acquisto, negli ultimi trent’anni
L’Italia è uno dei paesi europei in cui il lavoro è stato maggiormente indebolito, con perdita di diritti, sicurezza, potere di acquisto, negli ultimi trent’anni. Basti pensare che dal 1991 al 2022 i salari reali da noi sono rimasti fermi, mentre nell’insieme dei paesi avanzati Ocse sono aumentati di oltre il 30 per cento.
E mentre i nostri salari scendevano al di sotto della media europea, mentre cresceva il lavoro povero, le «riforme» degli ultimi decenni ci hanno reso, progressivamente, il paese con il mercato del lavoro più liberalizzato, fra le principali economie dell’Unione (più di Germania, Francia, Spagna, Olanda, Polonia: fonte Istituto Bruno Leoni, non certo vicino ai sindacati).
Tutto questo però non è servito a evitare il declino. Anzi, probabilmente l’ha favorito. Ben altre infatti erano e sono le nostre anomalie, che nel frattempo si sono accentuate: livelli di istruzione e ricerca che ci collocano agli ultimi posti fra i paesi avanzati; una pubblica amministrazione mal pagata, inefficiente e ormai anche sottodimensionata, non in grado di aiutare i cittadini e le imprese; l’elevato debito pubblico, che ci rende finanziariamente fragili e grava sugli investimenti, con l’altissima evasione che lo alimenta; una struttura economica sbilanciata verso le piccole e piccolissime imprese, che per natura si collocano in settori meno innovativi e avrebbero, proprio loro, maggiore bisogno di quei beni pubblici (amministrazione, stato di diritto, istruzione, ricerca, infrastrutture) che il nostro sistema paese non riesce a produrre. In questo quadro, nell’immediato la precarizzazione e l’impoverimento del lavoro sono la maniera, facile ma illusoria, con cui le nostre imprese poco efficienti sperano di potere competere, senza affrontare i nodi strutturali che impediscono di innovare e di crescere.
E nel medio e lungo periodo, date proprio le nostre condizioni di contesto, sono la via sicura per l’impoverimento, economico ma anche sociale, culturale, demografico: fra l’altro anche l’emigrazione giovanile (che pure non ha paragoni negli altri paesi avanzati) e l’inverno demografico discendono in buona parte da qui, dall’insicurezza e dai bassi salari di chi vive in Italia; e che sono, ripetiamolo, un incentivo a non rischiare la via dell’innovazione, che sola può fare aumentare la produttività nel lungo termine.
Invertire la rotta
Occorre quindi invertire la rotta. La Cgil ha promosso quattro referendum che vanno nella giusta direzione: puntano a ridurre i contratti a termine, a rendere i committenti responsabili in solido per gli appalti e i subappalti, a eliminare l’aspetto più controverso del Jobs act, ripristinando il reintegro al lavoro in caso di licenziamento illegittimo (per le aziende con più di 15 dipendenti) e togliendo il tetto massimo all’indennizzo (per le aziende minori).
Puntano insomma a dare più tutele, più sicurezza e più garanzie ai lavoratori; sono complementari alla proposta di salario minimo, su cui in parlamento convergono quasi tutte le forze di opposizione, e che nell’attuale versione non svalorizza ma rafforza la contrattazione collettiva, che diventerebbe il riferimento legale in ogni settore. E non solo. È necessaria finalmente una legge sulla rappresentanza che contrasti i sindacati gialli e anche, calibrata per il nostro contesto, una legge che garantisca ai lavoratori il diritto di partecipare alle decisioni della loro impresa (come previsto dalla Costituzione): è la cogestione, attuata da decenni nei più avanzati paesi europei, dove ha contribuito migliorare la produttività.
Altro insomma che il superbonus per le assunzioni, come propone il governo! (la solita via artificiosa per ridurre il «costo» del lavoro, a spese della collettività). Abbiamo bisogno di ridare al mondo del lavoro forza e dignità: è così che si contrastano le disuguaglianze, si consolida il mercato interno e si agevolano le imprese più competitive e innovative. È una parte essenziale di una strategia coerente contro il declino, per rendere l’Italia un paese, finalmente, più giusto e più moderno. Un grande paese europeo.
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