- «La riforma del catasto va fatta perché è di sinistra», titolava questo giornale il 13 ottobre. Affermazione sbagliata: la riforma del catasto va fatta, ma per migliorare l’efficienza del sistema tributario.
- È sbagliato giudicare una singola imposta soltanto per il suo effetto redistributivo. Primo, perché – come ci insegnano altri paesi – è molto più efficace redistribuire il reddito con il welfare e la spesa sociale che con le tasse.
- Secondo, perché guardare all’effetto redistributivo della singola imposta fa perdere di vista quello che conta: l’effetto complessivo sulla redistribuzione del reddito.
«La riforma del catasto va fatta perché è di sinistra», titolava questo giornale il 13 ottobre. Affermazione sbagliata: la riforma del catasto va fatta, ma per migliorare l’efficienza del sistema tributario. Un catasto basato su valori di mercato, invece dell’astrusa metrica di vani e redditi catastali, sarebbe di sinistra perché, come dichiara l’occhiello dell’articolo, sposterebbe risorse «da chi ha tanto a chi ha poco»: affermazione che si fonda sull’idea che i ricchi abitino nel centro delle città, in stabili d’epoca, e quindi con valori catastali distanti da quelli di mercato, mentre i poveri dei quartieri periferici in immobili di più recente costruzione.
È sbagliato giudicare una singola imposta soltanto per il suo l’effetto redistributivo. Primo, perché - come ci insegnano altri paesi - è molto più efficace redistribuire il reddito con il welfare e la spesa sociale che con le tasse.
Ridurre le distorsioni
Le decisioni relative a welfare e spesa sociale sono politiche; mentre al sistema tributario dovrebbe spettare il compito di finanziare la spesa con i minimi effetti distorsivi sulla crescita potenziale, perché maggiore la crescita, maggiore anche la torta per il fisco.
Naturalmente la struttura delle imposte non è neutrale rispetto alla distribuzione, ma dovrebbe essere il risultato delle decisioni redistributive fatte col welfare, non la sua prima finalità.
Secondo, perché guardare all’effetto redistributivo della singola imposta fa perdere di vista quello che conta: l’effetto complessivo sulla redistribuzione del reddito. Con l’attuale regime di esenzione delle prime case, per esempio, l’aspetto redistributivo fra centro e periferia applicato alle seconde case non ha molto senso, visto che la più parte di queste sono in luoghi di villeggiatura.
Ma anche estendendo l’imposta alle prime case l’equazione centro uguale ricchi è semplicistica e non tiene contro della dinamica delle strutture urbane con la riqualificazione di zone centrali di alcune città con edifici di alto pregio (come City Life o il Bosco Verticale a Milano) accatastati di recente, dello svuotamento delle residenze a favore di uffici e commerciale in diversi centri urbani, e della crescente domanda, specie dopo il Covid, di maggiori spazi in immobili ecologici e prossimi al “verde”, necessariamente di nuova costruzione e lontani dai centri storici.
Efficienza richiede inoltre che ogni imposta tenga anche conto degli effetti indiretti sul sistema economico e degli aspetti legati alla sua implementazione.
Quanto ai primi, la penalizzazione delle seconde case ha l’effetto indiretto di ridurre l’offerta di case in affitto; ma un mercato efficiente delle locazioni è indispensabile per aumentare la mobilità, che a sua volta facilita l’occupazione, oltre ad essere in contrasto con la cedolare secca alle aliquote agevolate del 10 e del 21 per cento introdotte anche per incentivare la locazione di seconde case.
Quanto ai secondi, c’è il problema non indifferente dell’attribuzione dei valori immobiliari: a differenza delle attività finanziarie, nel settore immobiliare pochissime transazioni disomogenee determinerebbero il valore di uno stock gigantesco.
Sorge quindi l’esigenza di concedere ai cittadini il diritto di impugnare presso un arbitro terzo il valore del proprio immobile accertato dal fisco; mentre ora abbiamo solo un contenzioso che eccelle per tempi lunghi e incertezza del diritto.
Far accettare la riforma
La riforma del catasto con il passaggio ai valori di mercato, e l’estensione dell’imposizione alla prima abitazione che, inutile negarlo, è implicita nella riforma, potrebbe essere molto più efficace, e accettabile per i cittadini, se fosse collegata alla riforma, altrettanto necessaria, del finanziamento dei Comuni.
Sarebbe un tassello di quella riforma organica del nostro sistema fiscale che tutti i governi auspicano, ma che poi regolarmente disattendono con una miriade di provvedimenti incoerenti e frammentati.
In quasi tutti i paesi occidentali l’imposta sugli immobili è la principale fonte di finanziamento degli enti locali per quattro buone ragioni: la base imponibile ha un’ubicazione certa (a differenza degli individui, vedi le difficoltà insite nei concetti di residenza e domicilio); il valore degli immobili è strettamente correlato alla qualità della vita e dei servizi della loro ubicazione (pulizia, sicurezza, mezzi pubblici, traffico, educazione, servizi sociali); avvicina i cittadini all’amministrazione degli enti locali, incentivando così la loro partecipazione alla vita politica locale (invertendo la crescente disaffezione); aumenta il senso di appartenenza a un comunità facilitando la compliance dell’imposta.
I dati Istat per il 2019, ultimo anno prima del Covid, mostrano spese complessive dei Comuni italiani per oltre 49 miliardi (di cui il 90 per cento correnti) coperte per appena 16 dall’imposta unica sugli immobili (Imu), 11 dalla tassa rifiuti (una tassa immobiliare mascherata), 7 da altri tributi locali e dall’addizionale Irpef, e 16 dai Fondi perequativi dello Stato e da trasferimenti correnti da amministrazioni centrali e locali (finanziati quindi dalla fiscalità generale).
La maggioranza delle spese dei Comuni è dunque coperta da una Imu mascherata o da imposte dello Stato centrale, distorsive per la crescita perché penalizzano il reddito da lavoro e da capitale.
Si guadagnerebbe in efficienza se i Comuni finanziassero interamente la propria spesa con un’unica imposta immobiliare (cancellando tutte le altre), estesa alla prima abitazione per allargare la base imponibile e ridurre le aliquote, che verrebbero stabilite autonomamente dai Comuni; oltre ad alimentare un Fondo di perequazione per i comuni svantaggiati, non più gestito dallo Stato centrale ma dalle Regioni.
Una proposta che potrebbe incontrare il favore anche di chi non è “di sinistra” in quanto non aumenterebbe il gettito tributario per come è strutturata; di chi è favorevole a un maggior federalismo; e di molti amministratori locali che aumenterebbero la propria autonomia e responsabilità, avvicinandosi agli interessi dei cittadini, che spesso contano di più della politica romana.
Una patrimoniale?
Le imposte “identitarie”, a destra come a sinistra, serviranno pure a rinsaldare i propri simpatizzanti, ma le riforme durature sono basate sul compromesso e sulla capacità di spiegarle ai cittadini.
Con il passaggio ai valori di mercato bisognerebbe poi allineare l’aliquota a cui viene tassato il reddito figurativo dei possessori di immobili nella dichiarazione Irpef alla cedolare secca sulle locazioni.
Infine, non sarebbe la temuta patrimoniale, perché non servirebbe ad abbattere il debito pubblico, ma a finanziare nel modo più efficiente i servizi locali di cui tutti usufruiamo. C’è anche una logica economica per tassare soltanto la ricchezza immobiliare.
La ricchezza accumulata col capitale di rischio cresce nel tempo unicamente per via della remunerazione che il capitale genera, ed equivale quindi alla capitalizzazione dei rendimenti nel tempo.
Poiché i rendimenti sono tassati, un’imposta sulla ricchezza li tasserebbe quindi una seconda volta Nel caso degli immobili il loro valore è invece dato prevalentemente dal terreno, il cui valore cresce nel tempo soltanto per via della localizzazione, come nella più classica delle rendite: e per questo è la base imponibile più appropriata per finanziare i Comuni dove l’immobile è accatastato.
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